Nel film “Il ponte delle spie”, il protagonista principale, un avvocato interpretato da Tom Hanks, è chiamato a difendere una spia russa arrestata negli Stati Uniti. L’avvocato vuole fare il proprio mestiere, difendere l’imputato ed esercitare i suoi privilegi nella relazione con il cliente, considerando confidenziali le loro conversazioni e opponendosi così alle richieste della Cia di conoscerne il contenuto. La Cia faceva leva sull’interesse nazionale, che è un qualche cosa di “superiore” rispetto alle normali leggi.
Nella percezione generale, l’interesse nazionale, la ragion di Stato, era spesso ritenuto un qualcosa di negativo che si contrapponeva allo Stato di diritto. Ma è effettivamente così? Nel 1634, Henry de Rohan, nel suo libro De l’intérêt des princes et États de la chrétienté, scriveva che i princìpi comandano le persone e l’interesse nazionale comanda i princìpi. E, in effetti, l’interesse nazionale è il fondamento stesso della sovranità, ciò che dovrebbe guidare la politica estera, interna ed economica di un Paese; un concetto che non si contrappone allo Stato di diritto, ma lo ispira. Perché l’interesse nazionale altro non è, o dovrebbe essere, che l’interesse a preservare l’integrità fisica, territoriale ed economica e garantire la sicurezza di un Paese e delle sue persone.
Oggi si comincia a guardare l’interesse nazionale sotto una luce diversa, e norme come quella statunitense, che istituisce il Cfius, o il Golden power italiano, misura presa anche da altri undici Stati dell’Ue, che prevedono la possibilità di bloccare investimenti in settori considerati strategici o di porre loro delle condizioni, sono considerate utili, se non necessarie. Ma cosa si intende per settore strategico? Negli Stati Uniti, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, la nozione di interesse e sicurezza nazionale e conseguentemente di cosa sia strategico si è ampliata in modo considerevole. Non sono poche le acquisizioni bloccate dalle autorità americane perché consentivano il controllo di infrastrutture strategiche, sia perché avrebbero consentito di usare tecnologie sensibili Usa in territori o Stati non particolarmente alleati, sia perché vi era il rischio di infiltrazioni di monitoraggi inopportuni da parte di entità straniere di siti sensibili o di comunicazioni elettroniche.
Si noti che, a differenza della norma italiana, il Cfius non contempla sanzioni nel caso di omessa notifica di un’operazione “sensibile”, ma nessuno si sognerebbe negli Usa di non chiedere il parere alle autorità competenti. Per quanto riguarda l’Europa, la situazione purtroppo è molto più complicata. Se infatti l’interesse nazionale è quanto di più vicino vi sia all’esercizio della sovranità di uno Stato, limitare o impedire acquisizioni da parte di soggetti stranieri, Ue o extra Ue, costituisce una violazione delle due libertà fondamentali sancite dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue): quella di circolazione dei capitali e di stabilimento.
È vero che l’articolo 65 del Tfue prevede che possano essere posti dei limiti a queste libertà per esigenze di sicurezza e ordine pubblico: l’apertura europea agli investimenti stranieri non è incondizionata, tant’è che la Commissione europea ha aperto una serie di procedure di infrazione nei confronti di Austria, Danimarca e Svezia, avendo questi firmato accordi con Paesi terzi, concedendo loro diritti incondizionati senza prevedere le eccezioni previste dal Trattato in termini di, per l’appunto, rispetto dell’interesse nazionale. Il problema si pone, però, quando si va a definire cosa si intende per interesse nazionale, dal momento che ogni Stato ne ha uno proprio.
Il quadro di insieme si complica ulteriormente se si considera che le restrizioni dettate dalla sicurezza nazionale sono interpretate sempre in senso restrittivo da Bruxelles e dalla Corte di Giustizia Ue. E non si può certo prescindere da ciò che pensa la Commissione dal momento che, nella sentenza Scientology, la Corte, pur non negando che la nozione di ordine pubblico vari da un Paese all’altro e da un’epoca all’altra, non ha esitato ad affermare che le deroghe ai princìpi fondamentali del Trattato “vanno intese in senso stretto col risultato di escluderne qualsiasi valutazione unilaterale da parte dei singoli Stati membri senza il controllo delle istituzioni comunitarie”.
A questo punto si sente il bisogno, per superare il dilemma di trattare a livello Ue quanto vi è di più vicino all’essenza della sovranità, ovvero l’interesse nazionale, di una linea comune concordata tra Stati membri. Al momento, malgrado un timido tentativo esperito qualche mese fa da alcuni Stati tra i quali l’Italia, siamo ben lontani dal raggiungimento dell’obiettivo.