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Vi spiego le convergenze tra Roma e Berlino sulla Siria. Parla Carlo Pelanda

Mentre la tensione continua a salire, Roma e Berlino hanno espresso la stessa posizione su un eventuale attacco contro il regime di Damasco: pur nella lealtà all’Alleanza atlantica, non parteciperemo. Si sta delineando un asse in Europa alternativo all’avventurismo francese? Italia e Germania potranno continuare a strizzare l’occhio alla Russia? E quanto Trump sarà disposto a spingersi oltre? Lo abbiamo chiesto al professor Carlo Pelanda, coordinatore del dottorato di ricerca in Geopolitica e geopolitica economica presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi di Roma, esperto di strategia e relazioni internazionali.

Professore, sebbene tardiva, la posizione italiana su un eventuale attacco in Siria è arrivata ed è uguale a quella tedesca: non parteciperemo all’intervento. Si sta delineando un asse tra Roma e Berlino, magari in grado di bilanciare l’intraprendenza di Macron?

La convergenza tra Italia e Germania è antica e dura da decenni. Di fatto si tratta di una convergenza d’occasione, di interessi convergenti che non sono però tali da creare un asse in ottica anti-francese. Italia e Germania solo le potenze manifatturiere esportatrici dell’Europa, e di conseguenza hanno gli stessi interessi, compresi quelli strategici di buoni rapporti con la Russia. Ma se, per l’Italia, la Francia è un nemico sulle questioni mediterranee, lo stesso non si può dire per la Germania.

In che senso?

La situazione tra Berlino e Parigi è chiara sin dal 1963. Nel trattato dell’Eliseo si prevedeva una vera e propria divisione in zone di influenza. Si prevedeva che la Francia si sarebbe occupata del Mediterraneo, lasciando alla Germania la possibilità di muovercisi, ma solo per operazioni concordate o mercantilistiche. A Berlino veniva invece riconosciuta la proiezione sull’asse balcanico-turco-iraniano, da tradurre in una politica di influenza lungo l’asse balcanico, di stretti rapporti con la Turchia e di avvicinamento all’Iran; il tutto senza toccare gli interessi francesi in Libano, Siria e nel resto del Golfo. Inoltre, osservando gli ultimi 60 anni di geopolitica, si vede con chiarezza l’autonomia che la Germania ha conservato nella politica con la Russia.

Lei ha parlato di Francia e Italia come “nemici”. Cosa intende?

Nel Mediterraneo è guerra vera. Tecnicamente è una guerra a bassa intensità e, nonostante le convergenze con l’Italia, la Germania non si metterà di certo a intervenire in ottica anti-francese, né costruirà un asse con il nostro Paese a tale scopo.

Ma sulla Siria le posizioni di Roma e Berlino sono allineate e distanti da quelle di Parigi.

Sulla questione siriana, Germania e Italia convergono. Entrambe hanno basi americane e interessi mercantilistici. Ciò significa che possono restare nell’Alleanza atlantica, fornire le basi agli Stati Uniti o alla Nato, e mantenere un certa autonomia nei rapporti con la Russia. In altre parole, ambedue hanno risolto allo stesso modo il dilemma tra mercantilismo (che le porterebbe a restare neutrali) e lealtà all’Alleanza (che invece richiederebbe la loro partecipazione). Così possono permettersi di conservare i rapporti con Mosca e Pechino, cosa che la Germania fa un po’ meglio rispetto all’Italia. Questo però non si traduce in un asse. In una eventuale alleanza a due, infatti, l’Italia metterebbe sul piatto la richiesta di un minor rigore sui parametri dell’eurozona, elemento che Berlino non può vendere ai propri elettori.

Invece Londra e Parigi hanno scelto la rottura definitiva con Mosca?

Il Regno Unito, pur conservando un atteggiamento mercantilistico, ha capito che avrà più vantaggi optando per la lealtà agli Stati Uniti, e lo stesso la Francia. Tanto Londra quanto Parigi possiedono inoltre armi nucleari, e hanno interesse a usare le armi nei contenziosi internazionali poiché devono far valere gli importanti investimenti in armamenti. L’Italia, al contrario, ha interesse a far valere i propri interessi navali, ed è per questo che generalmente forniamo logistica marina e protezione di secondo livello. Sono trent’anni che facciamo così, con rare eccezioni tra cui la prima guerra del Golfo (per imposizione degli Usa che hanno voluto anche una presenza aerea) e l’intervento in Afghanistan, che però si presentava come missione Nato con il mandato della Nazioni Unite.

Trump sta dunque spingendo per allontanare gli Stati europei dalla Russia?

Il presidente americano vuole costringere gli europei a stringersi intorno all’alleanza a guida statunitense. Trump sta ricostruendo la sfera di influenza americana e per farlo ha bisogno di “nemicizzare” la Cina e la Russia. La Germania si trova per questo in una enorme tensione. L’Italia ha pagato a caro prezzo le sanzioni contro la Russia, ma la Germania rischia di pagarne uno ancora più alto. È la nazione europea che più rischia dalla decisione americana di usare il bastone invece della carota per limitare l’espansione cinese.

Va bene la competizione con la Cina per il predominio del mondo, ma perché rischiare l’escalation con Mosca?

Resta effettivamente più difficile comprendere la “nemicizzazione” della Russia, che invece potrebbe essere inclusa nel piano di isolamento della Cina. La spiegazione è da rintracciare nella paura americana che la Germania abbia un proprio piano di potenza per diventare leader di un blocco euro-asiatico, e che così riesca a trattare con la Cina. Se ciò avvenisse, l’America sarebbe morta, ridotta a un Paese da 325 milioni di persone, con tecnologie residue e tante armi che non riuscirebbe a trasformare in benefici politici. Per evitarlo, gli Stati Uniti stanno chiedendo agli alleati europei di andare contro la Russia anche se non c’è un motivo pratico per farlo.

Ma Trump è davvero pronto a un conflitto con la Russia in Siria per questo? Quanto è disposto a spingersi oltre?

Tanto quanto serve per ottenere successo. Tanto quanto serve per portare il confronto con Russia e Cina sulle armi, perché su questo ha ancora un vantaggio. Trump ha tutto l’interesse a mostrare le armi anche perché lo strumento dei dazi e delle sanzioni economiche si è rivelato poco efficace e potrebbe addirittura essere controproducente per l’America. L’intento è ricostruire il potere americano cercando situazioni di conflitto. Ciò vuol dire che cercherà di costringere Putin a cedere, ad arrendersi, magari con un attacco comunque avvertito che non farà registrare vittime tra i russi. Anche perché, in vista delle prossime elezioni di mid term a novembre, Trump non è disposto a concedere alcun successo diplomatico né alla Russia, né alla Cina. Si tratta di normali giochi di geopolitica; è la normalità storica della guerra, tant’è vero che i mercati non sembrano ancora essersi spaventati.

La partita vera è con la Cina?

Con la Cina è tutta un’altra partita, ed è molto seria. Gli Stati Uniti stanno facendo tanta strategia, non poi così diversa dalle analisi che faceva l’amministrazione Obama. La differenza è che Obama ci metteva anche la carota per spingere la Cina a rivedere le posizioni commerciali. L’idea, vista l’impossibilità di contenerla, era di creare qualcosa di ancora più grande. La carota però non è bastata e così Trump sta usando il bastone, riuscendo anche a ottenere risultati. Spinto da un consenso bipartisan nel Congresso e dai propri consiglieri alla Casa Bianca, il presidente ha capito di avere a disposizione la superiorità militare e ha deciso di usarla creando situazioni di frizione.

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