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La politica estera chiama l’Europa

Europa

È ormai chiaro da anni che l’Unione europea è sempre più divisa al suo interno ed è attraversata da dinamiche che ne mettono in discussione la sua stessa esistenza, quantomeno nella forma in cui l’abbiamo conosciuta negli ultimi sessant’anni. Dalle migrazioni alle politiche economiche, fino al rispetto della rule of law, i temi per dividersi abbondano. Fino al caso estremo di Brexit. Eppure, il contesto internazionale non manca di offrire esempi di quanto sia non solo utile, ma anche necessario, rilanciare la già traballante credibilità internazionale dell’Ue. Basti pensare alla recente decisione statunitense di applicare dazi su acciaio e alluminio, su cui l’Ue ha ottenuto una temporanea esenzione.

In questo caso, l’Ue ha fatto fronte comune, forte del fatto che rappresenta il più grande mercato interno del mondo e che, soprattutto, ha competenze ben chiare in tema di commercio internazionale. Come si usa dire in queste situazioni, Bruxelles è in grado di parlare con una voce sola. I problemi nascono non appena si oltrepassa la soglia del commercio internazionale per sfociare nell’ambito delle relazioni internazionali tout court.

Qui tutte le contraddizioni e le divisioni interne emergono e diventano un valido strumento per gli altri attori internazionali, che hanno buon gioco nel seguire il più classico dei divide et impera. Lo fa la Cina con l’iniziativa 16+1 e con la promessa di ingenti finanziamenti per approfondire la spaccatura tra l’Europa dell’est e dell’ovest. Cerca di farlo la Russia con pressioni di vario tipo e a vario livello sui dossier a essa più cari, dalla questione ucraina, al caso del Nord stream con la Germania, fino al caos in Medio Oriente. E non fanno certamente eccezione gli Stati Uniti di Trump che approfittano delle velleità in politica estera – invero piuttosto fuori tempo massimo – di Gran Bretagna e Francia per sferrare un attacco alla Siria di Assad.

Insomma, nelle relazioni internazionali l’Europa continua a prestare il fianco a strumentalizzazioni esterne a causa delle sue spaccature interne e dei suoi miopi egoismi nazionali. Certo, la recente cooperazione rafforzata in campo militare (Pesco) fa esclamare un consolatorio “eppur si muove”, ma basta vedere la portata (modesta) dei progetti di cui questa si compone per concludere che sì, si muove, ma troppo lentamente. Considerazioni che è bene fare nel momento in cui si attende una roadmap sul rafforzamento dell’eurozona promessa da Macron e Merkel per il prossimo giugno. Un’occasione che non può essere sprecata da un documento senza una chiara visione strategica, fatto di meri aggiustamenti tecnici. Visione strategica che non può limitarsi al rafforzamento interno dell’eurozona – e dell’Ue in generale – ma che ponga anche la questione del ruolo dell’Ue a livello internazionale.

Un esempio che viene subito alla mente è quello del Fondo monetario internazionale (Fmi), dove i Paesi Ue vanno ciascuno per conto proprio. Pensano di poter contare sul lascito dell’anacronistico equilibrio di potere del secondo dopoguerra, che permette loro di contare complessivamente sul 30% dei voti, anche se il loro Pil pesa per il 22% su quello mondiale, mentre la Cina ha solo il 6,1% dei voti, ma entro il 2020 peserà per il 17% sul Pil mondiale. Con il risultato che il Fmi, come molte altre istituzioni internazionali, è sempre più debole ed è sfidato da nuove iniziative come il Contingent reserve arrangement. Ripensare l’eurozona e l’Unione europea non vuol dire soltanto rafforzarla al proprio interno, ma riconoscere anche l’importanza di parlare con una voce unica in un mondo in cui le voci si moltiplicano. E sempre di più parlano nuove lingue straniere.


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