Ha ragione Massimo Cacciari a sostenere che questa fase della vita politica italiana rappresenta la fine della cosiddetta “prima Repubblica”. Quella che abbiamo chiamato “seconda”, infatti, ha visto soltanto il de-generare del sottobosco della “prima”.
Ora è venuto il tempo, nel presente, di aiutare il futuro. Gli intellettuali, anziché cercare di guadagnarsi rendite di posizione con i nuovi vincitori o cercare di consolidare rendite già acquisite, dovrebbero porsi al servizio del cambiamento che già ci percorre.
Qui non voglio “sacralizzare” il bisogno di un governo ma, allo stesso tempo, sostengo che un Paese come l’Italia ne ha bisogno. Non possiamo continuare in una eterna transizione che ci sta inesorabilmente logorando. Questo perché, sopra ogni altra cosa, è ciò che accade al di là dei nostri confini che ci chiama a una urgente assunzione di responsabilità: gli impegni europei, in primo luogo, e le sfide globali che, volenti o nolenti, ci condizionano e nelle quali il nostro Paese non può non avere un ruolo.
Chi può deve aiutare, anche solo con la parola. Finiamola con i tatticismi inutili che non fanno altro che aggravare le banalità di un teatrino inguardabile. Finiamola con le grida che non ci portano da nessuna parte ma che contribuiscono soltanto a scavare la fossa, già profonda, tra i cittadini e le classi dirigenti e ad aggravare una già fragile coesione sociale.
Lavorare sull’oggi non significa, naturalmente, che gli attori che vediamo siano le classi dirigenti del futuro. Non possiamo saperlo. Ciò che sappiamo, però, è che dobbiamo fare i conti, macchiavellicamente, con la realtà-che-è. Se abbiamo conservato un minimo di considerazione per la democrazia rappresentativa, sta a noi di non darle il colpo finale.