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Ocse, quella pericolosa scorciatoia chiamata patrimoniale

L’Ocse ha analizzato quanto la crisi economica abbia ampliato ed acuito le diseguaglianze sociali e “suggerisce” l’uso della patrimoniale come modo veloce di ridurre tale divario in alcuni Paesi, fra cui l’Italia. Per la verità non molto tempo fa era toccato al Fmi lanciare l’ennesimo “avvertimento” al nostro Paese in merito alle sue – presunte – finanze disastrate che imponevano, senza indugio, cure da cavallo in materia fiscale, compreso, guarda caso, anche il ricorso alla patrimoniale. Ipotizzando un suo utilizzo, il Fondo monetario calcolava che per abbassare il debito pubblico a livelli pre-crisi, cioè quelli del 2007, in un “campione di 15 Paesi dell’Eurozona” servirebbe un prelievo del 10% sulla ricchezza delle famiglie!

Anche la Commissione europea non ha dimenticato di lanciarci messaggi di allerta, in materia previdenziale stavolta, lasciando intendere che la legge Fornero non andava affatto superata, come sostengono alcuni partiti politici, ma casomai rafforzata, pena nuovi e pesanti squilibri nella spesa pensionistica. Insomma una raffica di altolà e di perentori suggerimenti su due temi caldissimi per la politica e l’opinione pubblica: il fisco e le pensioni. Mi permetto qualche riflessione sul primo primo punto, l’ultimo in ordine di tempo, e tralascio il secondo sul quale torneremo a breve.

Spero vivamente che a nessuna forza politica venga in mente di intravvedere nella patrimoniale una scorciatoia laddove si palesa, al contrario, un salto nel precipizio del disastro economico.
Gli italiani sono da sempre un popolo di risparmiatori, e questa propensione ha garantito pace sociale e un tenore di vita crescente nel tempo. La crisi economica degli ultimi anni ha scosso profondamente il nostro modello sociale e creato nuova povertà e larghe sacche di precariato e disoccupazione. Ma la “cura” non può essere certo l’introduzione di una patrimoniale, perché darebbe il colpo di grazia ai nostri conti e cancellerebbe quel poco di fiducia che ancora gli italiani nutrono verso le istituzioni.

Gli ultimi dati del Mef sulle dichiarazioni dei redditi 2017 e relative al periodo di imposta 2016 parlano chiaro e attestano che sono circa 13 milioni i soggetti che non versano l’Irpef. Sull’altro lato della scala sociale, i contribuenti con un reddito complessivo maggiore di 300 mila euro (tenuti al pagamento del contributo di solidarietà del 3% sulla parte di reddito eccedente tale soglia) sono circa 35mila, cioè lo 0,1% del totale dei contribuenti, per un ammontare complessivo di 321 milioni di euro (circa 9.439 euro in media). A questi, sempre gli stessi, si affibbia il trito termine di “paperoni” e li si addita come destinatari di pensioni d’oro da ridurre o, in questo caso, di redditi e patrimoni così ingenti da essere inevitabilmente oggetto della patrimoniale di turno.

A mio parere, ancora una volta, non bisogna cadere in pericolose fughe in avanti, né farsi tentare da polverose suggestioni marxiste superate dalla storia e dall’esperienza dei Paesi industrializzati più avanzati. La via da percorrere per colmare gli squilibri sociali è altra: lotta all’evasione, pubblica amministrazione efficiente, sistemi di welfare aziendale e nuove forme di finanziamento per tutelare indigenti ed incapienti. Manager e dirigenti respingono al mittente ogni tentativo di dividere la società fra ricchi e poveri. I privilegi non appartengono a chi ha redditi elevati in quanto frutto di lavoro, competenza e professionalità, ma a chi lucra sull’inefficienza del sistema fiscale e a chi specula grazie alla mancata regolamentazione di una finanza corsara e spregiudicata.

Il governo, che ci auguriamo venga a breve costituito, deve lavorare per ridurre la pressione fiscale su lavoratori, imprese e pensionati, tagliando le spese improduttive e scommettendo sulle competenze di chi ha sempre operato per la crescita e la competitività del sistema-Paese. Non è più tempo di giocare d’azzardo.

La cosiddetta “patrimoniale” è iniqua per definizione. Poiché viene applicata sul patrimonio “visibile”, finisce per colpire il ceto medio-alto e non, come si vorrebbe, il patrimonio dei grandi ricchi, ovvero coloro che i propri patrimoni li intestano in capo a società costituite all’estero o in paradisi fiscali. Anzi è una tassa che può spingere alcuni ad accumulare patrimoni fuori del confini nazionali e di conseguenza deprimere gli investimenti, con l’effetto finale di un generale impoverimento del Paese.


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