Caro Direttore,
la lucida follia di cui parla Andrea Cangini su Formiche.net, per una modifica in senso presidenziale della nostra forma di governo, è una strada obbligata se vogliamo dare una via di uscita ordinata alla crisi italiana. Le ragioni da lui esposte ed il tema di una legislatura costituente che possa dare forma, sostanza e senso a questa appena nata, sono il frutto maturo della realtà.
È indubbio che qualcosa nel nostro sistema democratico non funziona più da tempo ed il cortocircuito innescatosi tra cittadini, politica ed istituzioni non è certamente figlio del caso, né tantomeno delle contingenze. Il sistema si è bloccato non solo perché si è presentata una formula di tripolarismo rigido, ma perché sono saltati i codici di funzionamento e sommiamo alla debolezza della politica la debolezza delle istituzioni, come in nessuna altra realtà occidentale.
La crisi che viviamo ha quindi origini antiche, non nasce dal voto del 4 marzo e da una legge elettorale che sapevamo non essere delle migliori. Una valutazione di questa natura, oltre ad essere fuorviante, è anche deleteria. Non solo siamo ormai da un quarto di secolo alla ricerca di un assetto funzionale e stabile, ma il tentativo di organizzare il sistema intorno al solo meccanismo elettorale è stato più volte reiterato con esiti più che fallimentari.
Sulla legge elettorale serve pertanto una ‘moratoria’. Prima una ‘riforma’ che metta mano alla forma di governo, dopo, solo dopo, un meccanismo elettorale coerente.
È questa, in parte, la riflessione che ho proposto nel corso dell’iniziativa-dibattito promossa dalla Fondazione Craxi in occasione della pubblicazione del nuovo numero del suo trimestrale ‘leSfide’, diretto da Mario Barbi e dedicato al tema delle riforme che dovrebbero interessare questa ‘XVIII legislatura’ repubblicana, cui fa riferimento Cangini, è stata tanto di merito quanto di metodo.
Affrontando rapidamente e laicamente la questione di merito, ritengo che l’esperienza e le istanze che ci provengono dalla società ci portano verso una riforma presidenziale, andando così incontro sia alla volontà dei cittadini che vogliono scegliere direttamente chi li governa (ogni accordo parlamentare viene ormai visto come ‘tradimento della volontà popolare’), sia alla necessità di un sistema efficiente ed utile a rigenerare il tessuto democratico, in grado di rivitalizzare e dare nuova funzione e ruolo ai partiti.
Ma è sul metodo che a mio avviso si deve giocare una partita, tutta in positivo, per il successo delle riforme costituzionali. Preso atto che servono soluzioni che, pur restando nel recinto della legittimità, vadano oltre il 138 (il Messaggio alle Camere di Cossiga del giugno ‘91 sulle riforme è ricco di spunti in tal senso), l’Assemblea costituente, la bicamerale o quel che sarà non può avventurarsi sulla strada di una riforma al buio, senza un indirizzo ed un coinvolgimento popolare.
Siano i cittadini ad indicare la strada, così come fecero nel ’48 quando le forze politiche non trovavano l’accordo sulla forma di Stato, attraverso la celebrazione di referendum di indirizzo.
Scelgano la forma di governo su cui lavorare; tra una forma presidenziale od un cancellierato. E perché no, anche se mantenere lo status quo! Parallelamente a questa scelta, i cittadini potrebbero anche esprimersi ed indicare la propria preferenza su un’organizzazione federale o centralista dello Stato e su alcune questioni di maggior rilievo ed insolute.
È un percorso di buon senso che, proprio in questa fase storica, per necessità magari più che per virtù, può vedere luce e sul quale, pur da fronti e schieramenti opposti, ci siamo già incontrati lo scorso 17 aprile. Serve un governo al Paese, certo. Ma dobbiamo anche dargli un futuro.