Gli incidenti sul lavoro di questi ultimi giorni, in aumento rispetto anche all’anno passato, riportano all’attualità un problema non risolto in Italia nonostante la ricca normativa in merito e le lavoratrici risultano le più penalizzate soprattutto nel tragitto casa lavoro, nella frequenza dei corsi di prevenzione e nella predisposizione per loro di attrezzi adeguati come camici, zoccoli, caschi, guanti, strumenti di tutor ecc. a misura femminile che non vengono adeguatamente predisposti.
Con l’emanazione del D.Lgs. 81/08 si era introdotta una concezione nuova di salute e sicurezza sul lavoro, non più “neutra” ma in grado di considerare le “differenze di genere” in relazione alla valutazione del rischio e alla predisposizione delle misure di prevenzione. Nella norma viene sottolineato come la probabilità che si produca un’alterazione dello stato di salute non dipende solamente dalla natura e dall’entità dell’esposizione ma anche dalle condizioni di reattività degli esposti. Vengono così individuate delle categorie di lavoratori che potrebbero essere maggiormente suscettibili ai rischi lavorativi in base ad alcuni fattori quali l’età, il sesso, l’origine etnica, la posizione contrattuale e le disabilità. Inoltre il D.Lgs. 81/08 – in ampliamento al D.Lgs 626/94 – prende in considerazione gli aspetti organizzativi associati allo svolgimento dell’attività lavorativa, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui quelli collegati allo stress lavoro-correlato.
A fronte di una legge che stabilisce la tutela della salute nei luoghi di lavoro orientata al genere, le indicazioni richiamate nel D.Lgs 81 non sempre risultano di facile applicazione. La prima difficoltà nell’applicazione del D.Lgs 81 è ancora oggi data dalla mancanza di metodi standardizzati che tengano conto dell’approccio di genere per valutare il rischio occupazionale – secondo il classico schema che prevede l’identificazione dei pericoli e le misure da adottare per prevenire il danno.
L’approccio di genere dovrebbe prendere in considerazione diversi fattori che didatticamente vengono ripartiti in due gruppi, definiti “sesso” e “genere” (purtroppo la ridondanza del termine crea molta confusione). Il “sesso” si riferisce alle differenze biologiche (anatomiche, ormonali e fisiologiche) che contraddistinguono l’essere maschio o femmina. Il “genere” si riferisce alla costruzione sociale della mascolinità e della femminilità riferendosi a tutti i condizionamenti socio-culturali che portano a definire ruoli lavorativi, sociali e familiari diversi per uomini e donne.
Nella ridondante ancora oggi Commissione di cui fanno parte un numero infinito di parti sociali prevista dal dlgs 81/2008 si sarebbero dovuti inserire i fattori inerenti al “sesso” e “genere” nella valutazione del rischio occupazionale, che però ancora oggi tranne alcuni cenni nei disciplinari della valutazione, sono ancora clamorosamente disattesi.
Alcune interessanti indicazioni vengono dalla medicina di genere che associa le diverse caratteristiche biologiche – maschili e femminili – agli effetti diversi osservati in lavoratori e lavoratrici, parimenti esposti ai rischi “specifici” – chimico, fisico, biologico, ergonomico, e di sovraccarico muscolo-scheletrico. Per esempio, tra uomini e donne esistono numerose differenze nell’assorbimento, nel metabolismo e nell’eliminazione degli agenti chimici che, a parità di esposizione, possono modificare il rapporto dose/effetto, diversamente conosciuto come “soglia di esposizione”. I limiti espositivi sono stati finora elaborati in modalità “neutra” e sebbene siano cautelativi – molto al di sotto della dose in grado di indurre danni – non rappresentano soglie universalmente valide, potendo variare in base al sesso, a fattori genetici e agli stili di vita.
In Emilia Romagna abbiamo dato vita ad un tavolo interistituzionale molto attivo che ha come obiettivo proposte per prevenire le malattie professionali e ha già elaborato con successo due strumenti che vengono distribuiti gratuitamente in tutti posti di lavoro che consistono in due guide sulla prevenzione delle patologie oncologiche, ingravescenti, invalidanti e sui diritti per i caregiver familiari e stiamo affrontando gli agenti che possono sul luogo di lavoro creare patologie ancora non riconosciute dall’inail come indenizzabili. Ovviamente un occhio particolare è dedicato alle lavoratrici e ai lavoratori e alle loro famiglie sulla legislazione operante e sui diritti e i doveri che bisogna conoscere(www.tutteperitalia.it) Ancora molto molto difficile risulta valutare il rischio occupazionale in ottica di genere per gli aspetti organizzativi e sociali – a cui non è ancora stato possibile attribuire caratteristiche riconoscibili e quantizzabili di pericolo.
Un esempio in tal senso è quello relativo alla segregazione occupazionale che definisce l’occupazione non in base alle attitudini dell’individuo, bensì al sesso di appartenenza. Ancora molti settori lavorativi presentano un’occupazione prevalentemente femminile o maschile – segregazione orizzontale – e, all’interno di uno stesso settore, spesso le mansioni affidate alle donne differiscono da quelle affidate agli uomini – segregazione verticale – con le donne maggiormente presenti in occupazioni precarie, ruoli subordinati e con retribuzione inferiore a quella maschile come dimostrano i recentissimi dati di Banca Italia. Questo fenomeno, oltre ad essere socialmente iniquo, potrebbe modificare la valutazione del rischio occupazionale. Purtroppo, ancora oggi, stereotipi sociali rallentano la consapevolezza riguardo la segregazione occupazionale, e limitano l’applicazione corretta del D.Lgs. 81/08.Altro aspetto organizzativo che dovrebbe essere considerato riguarda il lavoro domestico e di cura familiare, spesso sbilanciato tra il genere femminile e maschile, creando, per le donne, un doppio carico lavorativo che, in Italia, sopperisce all’assenza di un idoneo sistema di welfare.
Quando le richieste lavorative eccedono le capacità individuali di risoluzione, lo squilibrio avvertito dal lavoratore/lavoratrice può generare il cosiddetto “stress lavoro correlato” che può indurre uno stato di malattia sia psichico che fisio-patologico. Tuttavia, la non specificità delle patologie stress-correlate rende ancora difficile stabilire un nesso casuale tra lo “stress” e lo stato di malattia. Risulta evidente che i presupposti metodologici in uso per promuovere la salute e la sicurezza occupazionale necessitino di un’ampia revisione critica per promuovere l’equità di genere e soprattutto sensibilizzare le aziende nell’investire risorse adeguate per la prevenzione come le Direttive europee ci indicano e lo stesso Oil promuove con quel vigore che noi non riusciamo responsabilmente assumere.