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Siria, restare o uscire? Ecco cosa si dice nella Casa Bianca. Il retroscena

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Dopo il reiterato annuncio di Donald Trump di un ritiro prossimo delle truppe americane in Siria, scelta criticata da più parti del suo stesso governo, il tema è stato finalmente affrontato collegialmente martedì in un Consiglio di Sicurezza Nazionale (Nsc) nella Situation Room della Casa Bianca, alla presenza dei massimi consiglieri del Presidente come il ministro della difesa James Mattis, il capo della Cia e prossimo Segretario di Stato Mike Pompeo, il Segretario di Stato reggente John Sullivan e il capo degli Stati Maggiori Riuniti generale Joseph Dunford.

I leader dell’amministrazione Trump erano chiamati a deliberare sulle parole che il Presidente ha pronunciato più volte in questi ultimi tempi, parlando di una partenza imminente (“very soon”) dei 2mila soldati statunitensi stazionati in Siria. Opzione che, come riferiscono cinque membri del governo Usa che hanno partecipato alla riunione sentiti anonimamente da Associated Press, ha fatto alzare più di un sopracciglio tra i membri del Nsc.

In verità, lo stesso Trump nutre qualche perplessità sulla sua decisione. Egli infatti, in campagna elettorale, ha più volte criticato il suo predecessore Barack Obama per il ritiro intempestivo delle truppe Usa dall’Iraq nel 2011 e per aver varato poco prima una strategia per l’Afghanistan con un limite temporale. Ciò che il tycoon non vuole è essere inchiodato a una “timeline” che possa ritorcersi contro di lui, proprio come accadde con la partenza dei soldati americani dall’Iraq, cui seguì il rafforzamento dello Stato islamico e i suoi successivi exploit militari.

Questa perplessità è ampiamente condivisa dal Pentagono, dagli Stati Maggiori Riuniti, dal Dipartimento di Stato e dall’intelligence, uniti nella convinzione che una uscita precoce dei soldati americani dalla Siria non solo non permetterebbe di concludere il lavoro fatto sin qui di contrasto allo Stato islamico, ma darebbe al gruppo terroristico la possibilità di riorganizzarsi.

Per questo motivo, nella riunione del Nsc, i consiglieri hanno offerto al commander in chief un ventaglio di opzioni, che semplificando si possono riassumere in una scelta binaria: rimanere in Siria e assicurarsi così che lo Stato islamico non rialzi la testa, o ritirarsi del tutto. La maggior parte dei documenti illustrati durante l’incontro illustravano i vantaggi della prima scelta, mentre quelli che caldeggiavano il ritiro non solo scarseggiavano ma evidenziavano i rischi connessi, inclusa la possibilità che Russia e Iran, potenze dominanti nel conflitto siriano, se ne possano avvantaggiare.

Il più fermo sostenitore di una permanenza delle truppe è stato il generale Mattis, per il quale il ritiro sarebbe letteralmente catastrofico oltre che un incubo logistico, e implicherebbe il rischio più che concreto che lo Stato islamico ne approfitti per serrare i ranghi, riorganizzarsi e tornare a minacciare le aree che gli Stati Uniti insieme agli alleati curdi hanno tanto faticato per liberare. Per questo Mattis si è opposto all’ipotesi di fornire una data certa per la partenza delle truppe, anche se alla fine si è sbilanciato per una finestra temporale di almeno un anno.

Tra le soluzioni prospettategli, Trump avrebbe quindi deciso per una intermedia: predisporsi per il ritiro ma senza offrire date certe. Questo gli permette da un lato di evitare l’effetto Obama. Ma dall’altro gli consente anche di confermare uno dei suoi topoi più comuni, quello dei 7 trilioni di dollari spesi in Medio Oriente negli ultimi diciassette anni senza che gli Stati Uniti ne potessero ricavare alcun vantaggio.

Il tycoon quindi, in un certo senso, ha dovuto trattenere i suoi istinti, anche se non del tutto, mantenendo l’ipotesi che la permanenza delle truppe si prolunghi per massimo cinque-sei mesi, giusto il tempo di assicurarsi che la testa del serpente islamista sia definitivamente schiacciata e non possa più rialzarsi.

Il risultato è stato insomma un compromesso tra la linea intransigente del presidente e le valutazioni ponderate dei suoi consiglieri. Lo si è capito dal comunicato rilasciato dalla Casa Bianca il giorno dopo l’incontro, in cui si specificava che il ruolo americano in Siria sta pervenendo a una “rapida conclusione” senza però offrire date certe per il ritiro definitivo delle truppe. Il comunicato precisava anche che gli Stati Uniti contano sul contributo di altri Paesi e delle Nazioni Unite per stabilizzare la Siria.

“Il Presidente”, ha commentato il generale Kenneth McKenzie, direttore degli Stati Maggiori Riuniti, “ha fatto un’ottima scelta nel non darci una specifica timeline. Abbiamo sempre pensato che mentre ci avviciniamo alla conclusione dei combattimenti contro l’Isis in Siria, dobbiamo regolare la nostra presenza lì. Pertanto, alla fine, niente è cambiato”.



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