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Il tempo che stiamo vivendo

Ciò che osserviamo di noi e della realtà, a uno sguardo realistico, è al contempo profondamente de-generante e sfidante. Perché c’è bisogno, in un contesto umano che implode attraverso la esplosione di tutti i suoi limiti, di un “progetto di civiltà”.

Anzitutto dobbiamo ri-tornare (continuamente tornare) a conoscere le complessità del fattore umano. E conoscendo, inevitabilmente, generiamo nuove ignoranze e ci addentriamo in quel mistero-di-noi che è base per sempre nuova conoscenza. Il tutto, naturalmente, è complicato dal fatto che siamo avvolti in un “destino planetario” e che ogni particolare non può che comprendersi attraverso la sua com-prensione nel globale.

Sono consapevole che il “progetto di civiltà” sopra richiamato richieda un approccio culturale del tutto innovativo, nuove capacità che non pratichiamo perché ancora insistiamo nel separare il globale-che-siamo in funzione dell’utilità delle singole parti, presunte auto-referenziali. Raimon  Panikkar descrive il nostro disagio: “Noi non possiamo che mirare al totum, ma spesso dimentichiamo che tutto ciò che vediamo è la pars, che noi prendiamo pro toto” (Panikkar, Latouche – Pluriversum. Per una democrazia delle culture – Jaca Book 2018).

Io penso che mai si concluderà la “sfida” tra parte e tutto, così come – parlando in termini geostrategici – quella tra locale e globale. Perché non possiamo non fare i conti con il dato che, allo stesso tempo, “guardiamo oltre” e siamo perennemente “tirati” nelle nostre certezze, a parlarci tra “uguali”, a confinarci e a radicalizzarci in ciò che ci corrisponde. Non esistono “culture globali”, non esistono “universali culturali”. Eppure, nel tempo che stiamo vivendo, fin dalle parole sembriamo voler costruire una uniformità “a ogni costo”, quasi che ne andasse della  possibilità per noi di essere riconosciuti e di trovare un posto nella cosiddetta (e inesistente) “comunità internazionale”.

Il tempo che stiamo vivendo è quello di una “globalizzazione non globale”, un sistema che abbiamo sviluppato negando le differenze, gli sguardi “altri”. Non è più possibile adottare un approccio dall’alto alle sfide e ai problemi che incontriamo. Dobbiamo fare i conti con il fuoco che cova sotto la cenere, prendendo atto che il terzo millennio globalizzato è  caratterizzato da evoluzioni che fatichiamo a controllare e che, essendoci servite nella quotidianità, diamo per scontate: ne viene che non pensiamo, ci limitiamo a fare, dimenticato l’agire.

 

 

 



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