Il 12 maggio si tengono in Iraq le elezioni legislative, che porteranno poi alla nomina di un nuovo governo federale. Rivestono una notevole importanza per il futuro della crisi regionale in atto. Mentre la crisi siriana, malgrado il persistere di forti tensioni fra i vari protagonisti, segna irreversibilmente un punto a favore del regime di Assad e della coalizione di forze che lo appoggia, lo sviluppo di un Iraq indipendente e democratico è possibile e potrebbe influire sul corso della crisi nella regione a favore dei paesi arabi conservatori e di quelli occidentali.
Come si prospettano e quali tendenze si intravvedono dopo di esse? Per rispondere è necessario ripercorrere i termini della situazione in Iraq.
Il problema centrale di questo Paese è l’affermazione di un governo e di una maggioranza parlamentare che gli consenta di uscire dalle contrapposizioni settarie per adottare un sistema politico pluralista e inclusivo. Queste contrapposizioni ineriscono alla storia dell’Iraq ma è dalla caduta di Saddam Hussein che si sono tradotte in uno stato quasi permanente di guerra civile.
Il corollario delle tensioni e dei conflitti settari dell’Iraq è l’interferenza che per questa via l’Iran esercita nel Paese. L’occupazione da parte dell’Isis e la crisi in Siria hanno dato occasione alla dirigenza iraniana di tradurre l’interferenza in una più sistematica strategia di dominio regionale dell’Iran da Teheran asl Mediterraneo. L’affermazione di un sistema politico pluralista all’interno dell’Iraq e il contrasto all’interferenza dello sciismo khomeinista di Teheran sono perciò due fattori intrecciati: quanto più diventa plurale e solidale la nazione irachena, tanto meno l’Iran sarà in grado di interferire nel paese e alimentare i conflitti nella regione. E viceversa.
Abadi, l’attuale primo ministro a Baghdad, è succeduto nel 2014 a Nouri al-Maliki. Questi, che aveva condotto una politica estremamente settaria ed esclusiva, è caduto a causa del dissolversi dell’esercito iracheno di fronte all’avanzata dell’Isis e alla presa di Mossul nel giugno del 2014. Se Maliki è caduto per incompetenza, l’elezione al suo posto di Abadi è stata una vittoria di coloro che giustamente videro la sconfitta delle forze armate irachene di fronte a quelle del Califfato come esito dell’esasperato settarismo di Maliki.
Fra mille difficoltà Abadi ha portato avanti una politica moderata, volta a fare spazio al pluralismo rafforzandolo e, simultaneamente, a mantenere nelle relazioni internazionali e regionali una posizione equilibrata ed equidistante. Ha mantenuto buone relazioni con l’Iran e con gli Usa e ha recentemente riaffermato che l’Iraq ha bisogno di entrambi mae non si farà coinvolgere nei loro contrasti. Ha aperto a rinnovati e cordiali relazioni con l’Arabia Saudita, mantenendosi fuori dalle grandi contese che sottendono la grave crisi in corso nel Medio Oriente e tenendo quindi a bada anche le gravi contese interne al suo paese.
Perciò, Abadi si presenta alle elezioni con una piattaforma molto forte: come l’autore della vittoria sull’ISIS e al tempo stesso come il fautore di una politica inclusiva e pluralistica nei confronti delle diverse comunità dell’Iraq: un leader nazionale destinato a riformare e stabilizzare un paese avvilito da enormi violenze, dall’indigenza e dalla paura.
Tuttavia, la vittoria sull’Isis è stata ottenuta con l’ausilio di forze politiche e militari eterogenee che oggi pongono un’ipoteca sulla fattibilità del programma di Abadi: oltre alle Forze di Sicurezza del governo federale dell’Iraq, i peshmerga curdi, le milizie a maggioranza filo-iraniana delle Forze di Mobilitazione Popolare (FMP, Hashd al-Shaabi), alcune milizie tribali per lo più sunnite e le forze appartenenti al Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche inviate da Teheran. Queste forze, in particolare quelle iraniane e quelle del settore più deciso e meglio organizzato delle Fmp, hanno obbiettivi strategici in contrasto con la realizzazione della piattaforma di pluralismo e autonomia nazionale che ha animato la presidenza di Abadi e caratterizza oggi la sua candidatura.
Le Fmp stanno sui libri paga del governo ma i loro comandi sfuggono a quelli delle forze armate regolari. Esse nascono da una fatwa dell’ayatollah Ali Sistani che esortò il popolo iracheno a organizzarsi per respingere la grave minaccia dell’ISIS dopo Mosul. Costituiscono perciò una realtà ideologicamente variegata che comprende moliti sunniti e non pochi sciiti che si sottraggono all’influenza khomeinista. Il movimento è però di fatto dominata da quattro-cinque organizzazioni decisamente faziose e khomeiniste (con alla testa l’Organizzazione Badr) che hanno avuto un ruolo eminente nelle operazioni contro l’ISIS e che in vista delle elezioni si sono organizzate come una coalizione elettorale (“La Conquista”, Fateh), capeggiata da Hadi al-Ameri, leader dell’Organizzazione Badr. Ameri è un prominente alleato del governo iraniano e delle sue tendenze più oltranziste. La coalizione ha fra i suoi più importanti obbiettivi quello di eliminare dall’Iraq e dalla regione la presenza e l’influenza degli Stati Uniti.
Nelle elezioni la contrapposizione centrale è fra la coalizione della “Conquista” e quella della “Vittoria” (Nasr), cioè quella di Abadi. Ci sono altre tre coalizioni: lo “Stato di Diritto” di Nouri al-Maliki, decisamente anti-Abadi e vicina alla “Conquista”; la “Sapienza”, possibile alleata di Abadi; “Marcia alla vittoria” del noto leader religioso Moktada Sadr. Quest’ultimo è oggettivamente vicino ad Abadi – all’inizio di quest’anno ha fatto visita al re saudita – ma è anche saldamente arroccato su una posizione di populismo nazionalista che si traduce in una sempre imprevedibile autonomia.
Questo quadro è quello che formalmente affronta le elezioni del 12 maggio ma per avere un’idea più precisa del suo significato e della sua possibile dinamica è necessario ricordare gli eventi che si sono in esso verificati da gennaio ad oggi. Abadi ha vinto la battaglia contro Maliki all’interno del partito Dawa cui entrambi appartengono. Maliki è il leader del partito, ma Abadi non ha voluto evidentemente presentarsi sotto la sua guida. Il partito si è perciò piegato alla richiesta di Abadi di non presentarsi come tale e di lasciare lui e Maliki liberi di formare ciascuno una sua coalizione. La coalizione di Maliki ben presto si è rivelata marginale rispetto a quella di Abadi, che come ex primo ministro e vincitore dell’Isis occupa una posizione ovviamente centrale nel quadro politico complessivo dell’Iraq. Tuttavia,
Abadi è però debole sul piano organizzativo e rischia di non ottenere i voti necessari. Per questo ha tentato nel gennaio di mettere in piedi una supercoalizione con la “Conquista”, la coalizione delle Fmp, che ha poi anche attirato la “Sapienza” (guidata da Ammar al-Hakim, un altro rampollo dell’élite clericale sciita). Ma questa alleanza è naufragata in pochi giorni, lasciando in essere il quadro che abbiamo visto più sopra, con la pesante ombra però di una spregiudicatezza che ha stupito tutti e che mette in dubbio la serietà della piattaforma di vittoria e pluralismo sulla quale Abadi chiede il voto degli iracheni.
Queste vicende elettorali mettono in luce che l’abilità con la quale Abadi ha garantito la sua equidistanza dai conflitti faziosi e settari dell’Iraq e della regione non è nient’altro che un’abilità tattica, priva di strategia e di un’autentica leadership politica. Così, Abadi, sul quale gli Usa e l’Occidente fanno molto conto, potrebbe rivelarsi come un politicante dotatao di capacità tattiche ma non diverso dalla platea faziosa e rissosa che popola la politica irachena.
Probabilmente vincerà le elezioni, ma, come è accaduto dopo le elezioni precedenti, non sarà in grado di mettere in piedi una solida maggioranza di governo né quindi un governo solido. La previsione più attendibile è che, se vince, al-Abadi sarà alla testa di un’assai frammentata coalizione con una bassa apertura al pluralismo comunitario iracheno e una forte esposizione all’interferenza iraniana, cioè che la politica irachena resterà com’è oggi. Questo non avrà conseguenze benefiche sulla crisi che affligge il Medio Oriente, anzi potrebbe aggravarla.
Roberto Aliboni, Consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali