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Agricoltura e città, questo matrimonio s’ha da fare!

Di Harald Cosenza

È nato prima l’uovo o la gallina? È nata prima l’agricoltura o la città? Di sicuro non potrebbe esistere città senza agricoltura. Eppure, in poche migliaia di anni, le due gemelle si sono allontanate, quasi a prendere direzioni opposte, con vettori a combustibile fossile come unico mezzo di comunicazione.

Il mondo di oggi è governato dal prezzo e dalla quantità, concetti che si scontrano con un mondo lento e naturale come quello delle piante. A farla da padrona è la logistica. Abbiamo allontanato sempre di più la produzione agricola in regioni o Paesi dove la manodopera costa meno e, ahimè, anche le normative e i controlli sono più blandi (basti pensare al nostro amato olio evo), e oggi ne paghiamo le conseguenze. Raccogliamo prodotti immaturi, di provenienza quasi sconosciuta, ricchi di pesticidi, li conserviamo in celle frigorifere e li definiamo sani.

Stiamo perdendo uno degli asset più grandi che abbiamo: la biodiversità, di cui noi italiani dovremmo sapere qualcosa.Se il problema non verrà affrontato nei prossimi anni, non farà che peggiorare. La maggior parte della popolazione vive nelle città, che non sono autosuffcienti. Anzi, pretendono reperibilità costante di prodotti alimentari, trascurando il loro reale impatto sull’ambiente. Una soluzione percorribile è quella di reinserire, almeno parzialmente, l’agricoltura nel contesto urbano, riportandola a una dimensione umana o di quartiere per rieducare il consumatore alla diversità, al gusto e al benessere comune.

Come? Innanzitutto con l’idroponica, che può essere d’aiuto: è pulita, relativamente facile da installare e veloce nella produzione. Consuma molta meno acqua, quindi non ha bisogno di grandi masse e può anche essere integrata sui tetti degli edifici. Si possono riqualificare zone in disuso o coltivare in ambienti con terreni inquinati,  filtrando l’aria e l’acqua prima di immetterla negli impianti. In secondo luogo,con l’agricoltura urbana; la produzione distribuita è vincente perché, come l’apparato radicale di una pianta composto da milioni di sensori, è progettata per sopperire agli attacchi dei predatori. Riportando la produzione agricola a una dimensione di scala più contenuta, si possono ottenere signi cativi vantaggi. utilissima risulta poi la trasparenza: l’intera filiera è gestita in singoli nodi, dal seme al prodotto  finito e il consumatore ritorna a essere osservatore attivo delle meraviglie della natura.

Vi è poi il rapporto fra reperibilità e sprechi: simulando le condizioni di crescita naturali all’interno di involucri, possiamo produrre tutto l’anno una quantità costante di vegetali. Gli impianti possono essere dinamicamente dimensionati a partire dalla domanda, generando un prodotto sempre disponibile, ma senza i tipici sprechi delle  filiere agroalimentari. Infine, la logistica. La movimentazione della produzione avviene solo nell’ultimo miglio, dato che i punti di produzione sono prossimi ai punti di consumo e gran parte del trasporto potrebbe essere affidato a veicoli leggeri, persino biciclette o scooter elettrici.

Quale ruolo per l’Italia, portatrice sana di biodiversità e riconosciuta a livello mondiale per la tradizione di produzionee trasformazione della materia prima? Siamo senza dubbio sognatori, creativi e spesso facciamo fatica a collaborare, ma quando ci impegnamo, sappiamo essere molto concreti. Impianti, serre, meccanica di precisione, lampade Led, ottiche, software e hardware, enti di ricerca. Tutte competenze disponibili sul nostro territorio e pronte a essere valorizzate. Se facessimo squadra, come ecosistema, potremmo dire la nostra a livello globale. In questo senso sono importanti anche le politiche pubbliche di incentivazione: spazi con affitti calmierati e sgravi  fiscali e progetti cofinanziati pubblico-privati sarebbero un buon boost di partenza per il nostro ecosistema. Certo non possiamo permetterci di perdere il treno della biodiversità.

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