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La lungimiranza (che ci manca) di Aldo Moro

Di Pierluigi Castagnetti
aldo moro

Intorno alla figura di Aldo Moro si continuano a scrivere libri, saggi, articoli e a promuovere commissioni parlamentari d’inchiesta, seminari, convegni, conferenze. Ci si appassiona e ci si divide ancora a parlare di Moro, soprattutto della sua tragica fine: si poteva o non si è voluto salvarlo? Ma ci si divide pure sul giudizio sulla sua capacità di intuire, e in una certa misura guidare, i tempi e gli eventi.

Fra le tante tesi sostenute al riguardo in questo anniversario mi ha colpito e sorpreso, per la qualità culturale dei soggetti che solitamente apprezzo, quella espressa quasi contemporaneamente da Mauro Calise (Il Mattino, 27 marzo 2018) e da Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 31 marzo 2018) secondo cui il disegno di Moro di far incontrare, a metà degli anni 70, Dc e Pci in un’esperienza di governo è fallito semplicemente perché l’autore non aveva capito che questi partiti erano già finiti.

Si tratta di un argomento veramente singolare, che non tiene conto della realtà degli anni 70: imputare a Moro di non aver capito ciò che solo dopo alcuni decenni è apparso evidente. In quegli anni non era ancora caduto il Muro di Berlino, non era esplosa Tangentopoli, non si intravedeva neppure quel processo di globalizzazione che avrebbe messo a nudo una certa impotenza della politica a contrastare il peso del nuovo potere soprattutto finanziario, non c’erano neppure i sintomi di quella rivoluzione informatica e mediatica che avrebbe modificato non solo la modalità del fare politica, ma ancor più il protagonismo della società civile al punto da determinare la crisi della rappresentanza e, dunque, della stessa democrazia.

Giustamente, a questa osservazione ha risposto Marco Damilano (La Repubblica, 4 aprile 2018) citando il discorso politico – forse il più importante – tenuto da Moro il 28 febbraio 1978 davanti ai gruppi parlamentari del suo partito, in cui parlava di un “moto indipendente” rivelato “dal modo di essere delle forze politiche, alle quali tutte, comprese quelle della sinistra, esso pone problemi non facili da risolvere. Esso anima la lotta per i diritti civili e postula una partecipazione nuova alla vita sociale e politica”. Moro aveva intuito, inevitabilmente solo intuito, la crisi che si sarebbe manifestata in seguito, ma allora si doveva affrontare l’urgenza di una crisi politica, economica ma anche sociale, rappresentata dal terrorismo: “Quando vedo dei ragazzi in piazza con la P38, capisco che qualcosa si è spezzato. Se un giovane non crede di poter cambiare le cose e affermare le proprie idee attraverso il metodo del confronto e della persuasione, tipico della democrazia, allora è la democrazia che non funziona”, disse a un convegno.

Moro era consapevole della gravità della crisi e, dall’altra parte, capiva che i tempi urgevano e che la situazione politica del Paese non consentiva altre soluzioni rispetto a quella del coinvolgimento del Pci in un’esperienza di solidarietà nazionale (Moro non ha mai parlato di compromesso storico), che pure sapeva avrebbe incontrato tanto ostracismo internazionale proprio perché metteva in discussione gli equilibri di Yalta. Epperò Moro si rifiutava di impoverire il passaggio in una mera operazione di espediente per uscire dall’emergenza; anzi tentò, guidato dal coraggio e dall’intelligenza storica, di farne occasione per realizzare una condizione di “democrazia compiuta”.

La riflessione di Moro sul cambiamento intervenuto nella società italiana era cominciata sin dal 1968. In un consiglio nazionale della Dc di quell’anno dirà: “Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni di insufficiente dignità e di insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze dell’intera umanità, la visione del diritto degli altri, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi a un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità”, che questi partiti non riescono a vedere e rappresentare.

E si potrebbe continuare citando altri discorsi in cui affronta, con lungimiranza e una certa solitudine non solo all’interno del suo partito, i cambiamenti che hanno messo in crisi il ruolo e l’essenza dei partiti. Ma, ripeto, era consapevole della necessità di operare dentro la realtà di quel tempo, in cui il rinnovamento e la reinvenzione della forma-partito dovevano andare di pari passo, anzi, si sarebbero potuti realizzare all’interno di un disegno politico più ampio, in cui politica e organizzazione della politica non potevano che procedere insieme.


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