La proposta di bilancio pluriennale per il settennio 2021-2027, quello senza il Regno Unito, è stata accolta con favore e poche proteste. Il presidente della Commissione Jean Claude Juncker e il commissario per il bilancio Günter Oettinger l’hanno presentata ieri 2 maggio al Parlamento europeo a Bruxelles e ai giornalisti. È un bilancio ricco di dettagli “politici” su cui il consenso è in gran parte costruito.
Il succo è semplice. Si tratta di riempire il buco della Brexit, valutato tra 12 e 15 miliardi di euro all’anno, e di finanziare le nuove priorità: difesa e sicurezza da un lato, crescita e digitale dall’altro. Alla grossa, sono tagli per 6-7 miliardi all’anno e nuove entrate per altri 6-7 miliardi. Così i conti tornano in equilibrio (l’Unione non può fare deficit) mentre i soldi in più servono per finanziare le nuove politiche.
IL MESSAGGIO POLITICO DELLE ENTRATE
Una parte dei soldi mancanti verranno da un aggiustamento del contributo degli Stati membri, che passa dall’1% al 1,114% del reddito nazionale lordo. Poi, dopo tanta fatica a dibattere sulle risorse proprie (cioè quelle non trasferite dagli Stati membri, che sono oggi il 70% del totale), entreranno nel bilancio ben 22 miliardi nuovi: dalla plastica, dalle società e dalle quote di emissioni. Per gli appassionati, si tratta di 80 cent al chilo dalla plastica non riciclata, dalle emissioni il 20% dallo scambio di quote, dall’imposta sulle società il 3% della nuova base imponibile comune.
Le correzioni dei pagamenti per i singoli Stati necessarie per compensare il vecchio “I want my money back” della Thatcher scompaiono insieme al Regno Unito. Le trattenute degli Stati sui tributi doganali – che spettano d’ufficio all’Unione – passeranno dal 20 al 10%.
LE SPESE: TAGLI ALLE POLITICHE MATURE, SOLDI A QUELLE NUOVE
Anche la parte spesa è interessante. Le politiche mature prendono una rasoiata, per quanto non decisiva: meno 5% per la Politica agricola comune e meno 7% per la politica di coesione. D’altra parte, entrambe avevano un senso progressivo, servivano per uno scopo. La Pac odora di conservazione ed è in riforma permanente; qualità e sviluppo vengono spesso da altre politiche o dal mercato piuttosto che dagli aiuti europei di settore.
Le politiche di coesione sono sotto osservazione da tempo. La gestione delle Regioni e degli Stati membri è farraginosa, spinge verso la spesa corrente e le strutture di gestione. Basta guardare al nostro Mezzogiorno: malgrado i miliardi europei, il suo Pil è imbullonato. La Polonia è cresciuta, ma il motivo non risiede dunque soltanto nei soldi.
Anche l’approccio si annuncia più forte: si deve finirla con la spesa ordinaria, i programmi europei si concentrano da 58 a 37, meno teatro delle autorità di gestione negli Stati membri: per esempio, tutti gli agricoltori italiani conoscono i ritardi nei pagamenti Agea e assimilati. Infine, ha ricordato Oettinger, in mancanza di rispetto dello Stato di diritto, i fondi saranno sospesi. Il riferimento è a Polonia e Ungheria, ai tentativi di rendere il potere giudiziario dipendente dal potere esecutivo.
I problemi recenti fanno crescere i nuovi programmi che passano al 35% del bilancio. Ognuno ne ha un po’: Erasmus + (30 miliardi), la difesa comune Pesco, l’agenzia Frontex (da 1200 a 10mila agenti per le frontiere esterne), la rivoluzione digitale. Il cambiamento climatico vale circa il 25% del bilancio, tra un programma e l’altro. L’intervento nei Paesi di origine delle migrazioni e nei Paesi Acp (Africa Caraibi Pacifico – Fes) entra a far parte del bilancio dell’Unione.
C’è anche l’InterRail gratis per far conoscere l’Europa ai 18enni, per 100 milioni di euro all’anno, neanche tanti, in proporzione. È segno che l’Unione europea ha ormai tutti i crismi della politica e della ricerca del consenso: l’idea viene da Manfred Weber, il capogruppo Ppe al Parlamento europeo.
Poi ci sono le riforme. Per appoggiarle nei singoli Paesi (tra cui, per dire, l’Italia) ci saranno 25 miliardi di euro: è la risposta al linguaggio ormai superato della flessibilità. 30 miliardi serviranno per gravi shock asimmetrici, il bilancio avrà meno rigidità specie di fronte a eventi nuovi. Un meccanismo di convergenza specifico è previsto per i candidati all’eurozona.
A guardare nell’insieme e nel tempo, l’Europa sta cambiando. Dal 1991 al 2021 la politica agricola passa dal 55% a meno del 30% del bilancio, le nuove politiche invece dal 15% al 35%, mentre la coesione regionale, cresciuta dal 21% al 36% ritorna sotto il 30%. Il funzionamento viaggia sempre tra il 5 e il 7% del bilancio.
POCHE PROTESTE
Le voci contrarie sono sparse e poche. L’Austria del primo ministro FPÖ Sebastian Kurz vorrebbe un bilancio più ridotto, così come il primo ministro danese Lars Løkke Rasmussen e quello neerlandese, Mark Rutte: voci al momento isolate, la consultazione è stata ampia. Il presidente Antonio Tajani ha ricordato come Parlamento europeo avesse persino proposto un aumento del contributo degli Stati dal’1% all’1,3% e non solo all’1,1%. Agricoltori, fautori dell’allargamento, degli aiuti nel mondo e nelle Regioni hanno detto qualcosa, compensati però dagli ambienti economici e industriali, dalle associazioni, dalla ricerca.
Ci si aspetta dunque qualche battaglia: ma incruenta.