Skip to main content

Le elezioni in Iraq, un risultato non positivo per l’Iran

Moqtada al-Sadr, iraq

In attesa dei risultati finali e ufficiali delle elezioni in Iraq è già chiaro che a vincerle non è né la coalizione “Nasr” guidata dal primo ministro uscente Haidar el-Abadi, né quella “Fateh” che raccoglie le forze sciite pro-iraniane. La coalizione che ha ottenuto il maggior numero di voti è Sairun (“Avanti per le riforme”) guidata da Moktada el-Sadr, un nazionalista con propensioni populiste che viene da una stimata famiglia di capi religiosi e il cui padre fu assassinato dal regime di Saddam Hussein.

La vittoria di Sadr significa che egli è in cima alla scala di ripartizione dei seggi ma non che abbia abbastanza seggi da formare da solo il governo. La politica irachena è molto frammentata e richiede, per arrivare alla maggioranza, la formazione di coalizioni che però la stessa frammentazione non facilita. La frammentazione è anche all’interno dei partiti e delle coalizioni, dove non di rado gli interessi delle singole personalità portano a vistosi opportunismi e a risultati sorprendenti. Per rendersene conto si può ricordare che, dopo aver perso le elezioni del 2010, el-Maliki manovrò per 249 giorni riuscendo, con ogni mezzo, a mettere insieme una coalizione che gli consentì il suo secondo mandato.

La coalizione che potrebbe prevalere è in principio quella di Sadr, di el-Abadi, e del partito curdo di opposizione, Gorran, con alcune gruppi sunniti minori. Sadr ha commentato il risultato delle elezioni con un tweet (che il “New York Times” definisce “lirico” – ma che è nel solco della cultura arabo-islamica) che, dopo aver messo in evidenza i suoi maggiori punti programmatici (porre fino al settarismo, combattere la corruzione e mettere l’amministrazione dello stato nelle mani di professionisti e non di politici), si indirizza a coloro che suppone condividerli. Sono più o meno quelli che abbiamo appena detto ed è vero che si tratta di gruppi politici accomunati da un orientamento anti-settario, nazionale e – almeno nelle intenzioni –riformista. Ma, nel difficile contesto iracheno, Sadr potrebbe non riuscire a formare una coalizione di governo e dover invece cedere il passo a coalizioni di altri partiti e raggruppamenti. Il tempo s’incaricherà di farcelo sapere e non necessariamente a breve.

Intanto, mentre gli Stati Uniti vedono ascendere un non nemico (amico di un loro amico come Abadi), la vittoria di Sadr è un colpo per l’Iran, che prima delle elezioni aveva anche stabilito buone relazioni con l’Arabia Saudita nel quadro del ravvicinamento fra Riyadh e Abadi. Certo, il risultato delle elezioni in Iraq si è rivelato per l’Iran meno tranquillizzante di quello delle elezioni svoltesi pochi giorni prima in Libano. Qui il blocco sciita di Hizbollah e Amal è risultato la prima coalizione in termini di voti, mentre la lista dell’ex primo ministro Saad Hariri (Movimento per il Futuro), leader dei sunniti, si è ritrovata con i seggi dimezzati.
Ma le circostanze politiche e istituzionali obbligano il blocco sciita, innanzitutto, a doversi coalizzare per nominare un governo e un primo ministro (che secondo il principio di “spartizione” della costituzione libanese deve essere un sunnita) e, in secondo luogo, a farlo di nuovo con Hariri. Certamente, i sunniti escono indeboliti dalle elezioni e Hariri ancora di più. È pur vero che gli sciiti sono indeboliti dalla perdita dei loro alleati cristiani, il partito del presidente Aoun, e dal raddoppio dei voti delle Forze Libanesi pure cristiane. Ma tutto questo non impedisce a Hizbollah di comandare attraverso la coalizione con Hariri, che giocava nelle sue mani prima e ancora di più adesso.

Perciò, mentre In Libano la composizione degli equilibri è cambiata ma la predominanza degli sciiti e di Hizbollah resta decisamente a favore di Teheran, l’influenza iraniana è non poco a rischio in Iraq e se cede, nell’ambiente mediorientale dà sicuramente il via a un effetto domino. In effetti, se dai singoli paesi passiamo al panorama regionale e internazionale, questa sconfitta irachena va a collocarsi per Teheran in un quadro non favorevole, anzi verrebbe fatto di dire che da un quadro che vedeva Teheran all’apice del suo predominio regionale, preoccupando non poco l’Occidente, gli accadimenti sembrano segnare l’inizio di una discesa da quel picco.

La vittoria in Iraq di forze non amichevoli verso l’Iran si deve considerare sullo sfondo della decisione di Trump di ritirarsi dal Jcpoa e ripristinare le sanzioni economiche. Questa decisione ha rafforzato la volontà israeliana di contrastare la presenza e la minaccia iraniana che vengono dallo stanziamento militare di Teheran in Siria. Al tempo stesso si avverte che la Russia appoggerà il movimento di difesa dello Jcpoa assieme agli europei, ma non farà troppo per contrastare l’indebolimento dell’Iran nella regione.

Per quanto riguarda Israele, la settimana scorsa l’ultima delle diverse schermaglie aeree fra Israele e le forze iraniane in Siria si è conclusa con una seria decimazione dello schieramento iraniano mostrando che le risposte israeliane, grazie al dominio dei cieli, possono fermare l’Iran non solo sulla strada al Mediterraneo ma poi anche su quella all’arma atomica. La prodezza militare delle forze armate iraniane e delle sue legioni straniere, arrivata fin sotto l’ambito obbiettivo di Gerusalemme, potrebbe aver ironicamente iniziato a rivelare i suoi piedi di fango, con grave rischio della classe dirigente khomeinista.

D’altra parte, la decisione Usa di ritirarsi dallo Jcpoa, in generale non è apparsa il modo più efficace per fermare l’espansionismo regionale iraniano, che è l’obbiettivo di fondo di Trump. Vero è però che le sanzioni americane sono un pugno allo stomaco dell’economia iraniana e quindi alle ambizioni regionali e militari di Teheran. Ma è anche vero che malgrado questo pugno la classe dirigente di Teheran potrebbe sopravvivere se la sua influenza regionale restasse in piedi o continuasse a rafforzarsi sul piano politico e ideologico.

Se questa influenza invece si indebolisce, l’espansionismo iraniano difficilmente potrebbe reggere l’urto delle sanzioni. Le elezioni irachene appaiono come un segno di declino dell’influenza regionale iraniana. Questo declino e la politica di Trump verso l’Iran potrebbero rafforzarsi a vicenda e le cose per Teheran potrebbero allora cambiare. Il risultato delle elezioni irachene non è solo un buon segno per il rafforzamento della democrazia di questo Paese ma anche per il contrasto all’espansionismo di Teheran e alla destabilizzazione che ne deriva per l’intera regione.



×

Iscriviti alla newsletter