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Oltre la pensione. Consigli per il nuovo governo

Di Stefano Zorzi e Eleonora Faina
pensione

In tutto il mondo i sistemi pensionistici sono in crisi: è una crisi finanziaria, di sostenibilità e solvibilità, ma – a guardar bene – è il concetto stesso di pensione a essere in discussione.

Capire la crisi dei sistemi pensionistici non è, però, solo un esercizio economico. Per comprendere le ragioni e abbozzare qualche soluzione è utile allargare la prospettiva, partendo dalle origini di un istituto che diamo per scontato, ma che in realtà ha poco più di cent’anni. Ci si renderà conto che l’unico modo per mantenerne la finalità originale, sia cambiarne radicalmente la forma.

C’ERA UNA VOLTA LA PENSIONE

La pensione in senso moderno nasce in Germania nel 1886 come assicurazione per chi per motivi di età (e più tardi anche d’invalidità) non era più in grado di provvedere a se stesso attraverso il lavoro. La forma era quella di un pagamento mensile fisso, finanziato tramite un prelievo diretto sugli stipendi dei lavoratori attivi. Nel tempo, questo sistema si è affermato in tutti paesi occidentali, Italia inclusa, dando vita al modello pensionistico “retributivo”, ossia basato su un reddito mensile certo e prestabilito – in genere calcolato in proporzione all’ultimo stipendio percepito – e svincolato dal risparmio accantonato durante gli anni lavorativi.

In un’epoca di aspettativa di vita breve e di lavori veramente usuranti la costruzione ha retto (la soglia minima per la pensione in Germania era di 70, età che in quei tempi ben pochi raggiungevano). Ma non appena si è allungata l’aspettativa di vita, le nascite sono calate e la crescita economica è rallentata, il modello “retributivo” è entrato in crisi, rischiando di mandare in bancarotta gli enti previdenziali, pubblici, come da noi, o privati, come è più spesso il caso negli Stati Uniti.

La risposta è stata quella di passare a sistemi “contributivi”, nei quali la pensione è corrisposta unicamente in base ai contributi effettivamente versati, cioè al risparmio. Chiunque viva in un sistema di questo tipo sa però che, una volta salvata la sostenibilità del ente pensionistico, si aprono nuove difficoltà: vivere di pensione per circa vent’anni dopo averne lavorati, e risparmiati, trentacinque è molto difficile, se non impossibile. La coperta, come si suol dire, è corta. L’attenzione si è quindi spostata sull’innalzamento dell’età pensionabile, scantenando numerose proteste.

IL DIRITTO DI RIMANERE ATTIVI

Capiamo la reazione di chi ormai vicino all’ agognato traguardo se lo vede spostato più avanti, ma per chi invece alla pensione non ci pensa, o non può permettersi di pensarci, è questo il punto di partenza per trovare nuove soluzioni.

Intanto, cambiamo il lessico: invece di “posticipare la pensione” parliamo di “allungare la vita lavorativa”. E partiamo da un dato culturale: per chi è appena entrato nel mercato del lavoro e per chi ancora non l’ha fatto, l’idea di una vita fatta di vent’anni di studio, trenta di lavoro (magari in un’unica azienda) e altri venti di pensione suona – o dovrebbe suonare – più come una condanna che come un obiettivo.

D’altronde la società è profondamente cambiata rispetto a 40 o 50 anni fa: l’aspettativa di vita in Europa si è allungata oltre gli 80 anni, la formazione e la conoscenza sono accessibili, le donne studiano e lavorano, sono nati nuovi lavori ad alto valore intellettuale e creativo, gli stimoli e la complessità in cui viviamo sono fonte di “motivazione” per le persone. In altri termini, il lavoro non è più solo reddito: ci identifica e ci sostanzia, e la voglia di essere attivi non si spegne allo scoccare dei 60 anni.

La vera sfida per il futuro è mettere tutti nella condizione di avere un lavoro interessante, soddisfacente, e non usurante (avendo come alleato la tecnologia) per guadagnarsi da vivere, con dignità, per il più lungo tempo possibile. Per farlo, la pensione va ripensata e trasformata: da mero accantonamento per la vecchiaia a strumento di assistenza e accompagnamento per tutto il corso della vita, lavorativa e non.

RIPENSARE LA PENSIONE PER UN MONDO CHE CAMBIA

Facciamo un esempio concreto. Il contributo pensionistico potrebbe essere ripartito tra una componente di risparmio e una componente assicurativa. In caso di mancanza temporanea di reddito – involontaria, per la perdita del lavoro, o volontaria, per la scelta di prendersi una pausa e magari acquisire nuove competenze – l’assicurazione fornirebbe il “cuscinetto” necessario a garantire un’entrata economica. Nel corso del tempo, la componente di risparmio crescerebbe, andando progressivamente a formare il capitale necessario per poter, un giorno, vivere senza reddito da lavoro. Ma non solo, il risparmio potrebbe anche essere usato per aprire un’attività o intraprendere un percorso formativo.

Un cambiamento in questa direzione permetterebbe il raggiungimento di diversi obiettivi: offrire resistenza alle piccole o grandi disavventure della vita, permettere un aggiornamento e un rinnovamento costante, e garantire, infine, la possibilità all’individuo di restare attivo e indipendente. In sintesi, la manifestazione moderna della funzione originale di un sistema pensionistico: permettere al maggior numero di persone di sostenersi economicamente, per l’intera durata della vita.

Non si tratta di una trasformazione semplice né senza ostacoli pratici. Per questo, abbiamo bisogno che la politica recuperi il ruolo che le è proprio: immaginare, disegnare e guidare. Abbandoniamo l’illusione di salvare con rammendi continui un sistema antiquato, che rischia di diventare sempre più zavorra per il futuro, e diamoci da fare per crearne uno nuovo.

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