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Cosa succede se salta l’Iran deal? L’Europa alla ricerca di un piano B

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Manca ormai poco più di una settimana al giorno, il 12 maggio, in cui Donald Trump prenderà la sua decisione sul Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), l’accordo nucleare con l’Iran siglato a Vienna nel luglio 2015 dai cinque membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina, Russia) più la Germania e l’Unione Europea.

Sin dalla campagna elettorale, Trump ha contestato veementemente il Jcpoa, definendolo “il peggior accordo di sempre”. Negli ultimi mesi, il presidente Usa ha segnalato chiaramente l’intenzione di reintrodurre le sanzioni contro l’Iran, in una mossa che affosserebbe definitivamente il deal. Una prospettiva che terrorizza i contraenti europei dell’accordo, che hanno speso gli ultimi mesi a fare lobbying nei confronti di Washington affinché non prenda decisioni avventate.

Gli ultimi tentativi di convincere Trump a non compiere passi falsi sono stati quelli di Emmanuel Macron e Angela Merkel. Ambedue in visita a Washington, il presidente francese e la cancelliera tedesca hanno presentato a Trump la loro alternativa: negoziare una nuova intesa con Teheran che tenga conto delle preoccupazioni americane nei riguardi della Repubblica Islamica. La lista dei desideri degli Stati Uniti è lunga: pretendono ispezioni più intrusive da parte degli ispettori dell’IAEA, anche nei siti militari; vogliono rinegoziare le “sunset clauses”, in base alle quali il Jcpoa scadrà nei prossimi anni; chiedono la fine del programma balistico di Teheran; desiderano, infine, porre fine all’avventurismo iraniano in Medio Oriente, ben testimoniato dalla partecipazione alla guerra civile siriana al fianco del presidente Bashar al-Assad e dal sostegno ai ribelli Houthi dello Yemen.

Secondo alcuni diplomatici europei sentiti ieri da Reuters, Gran Bretagna, Francia e Germania continueranno, anche se con realismo, i loro tentativi di persuadere Trump per tutto il tempo che rimane fino al 12 maggio. “Abbiamo una settimana per continuare a parlare agli americani”, ha detto uno di loro, “per vedere se possiamo trovare un’intesa sull’accordo. Ma non penso”, ha aggiunto, “ci sia ragione di essere eccessivamente ottimisti”.

Un altro diplomatico europeo consultato da Reuters ha riferito che “stiamo cercando di trovare la giusta formula per rispondere alle aspettative degli americani, ma allo stesso tempo non andare contro l’accordo. (…) Abbiamo una chance di raggiungere un’intesa, ma anche se ne abbiamo una, non sono convinto che sarà sufficiente a impedire agli Usa di ritirarsi”.

In Europa, insomma, prevale lo scetticismo. Che se non impedisce a Germania, Francia e Germania di effettuare un ultimo tentativo di convincere Trump a non rinnegare il Jcpoa, non consente di coltivare molte speranze su un successo dell’iniziativa diplomatica transatlantica. Che deve fare i conti anche con la ritrosia iraniana a rimettere mano ad un accordo negoziato lungo ben dodici anni e che, secondo l’opinione dell’Iaea e di tutti i contraenti del Jcpoa con l’eccezione degli Usa, sarebbe stato rispettato integralmente dall’Iran.

Teheran in particolare si oppone alla rinegoziazione delle “sunset clauses”. Per modificarle, bisognerebbe riaprire il Jcpoa e modificarlo conseguentemente. Una prospettiva cui l’Iran risponde con un secco no. Giusto ieri lo ha ribadito il ministro degli esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif, in un messaggio video diffuso su YouTube. “L’Iran non rinegozierà ciò che è stato concordato anni fa ed è stato implementato”, ha detto Zarif. Che farsi meglio comprendere da Trump è ricorso ad una metafora immobiliare: “quando compri una casa e ci trasferisci la tua famiglia, o la demolisci per costruire un grattacielo, non puoi tornare indietro due anni dopo e rinegoziare il prezzo. Rincarando la dose, Zarif ha aggiunto che semmai sono gli americani che hanno “costantemente violato l’accordo nucleare, particolarmente impedendo alle imprese (straniere) di fare ritorno in Iran”.

Ancora più chiaro è stato, sempre ieri, il consigliere della Guida Suprema, Ali Akbar Velayati, per il quale ogni ipotesi di “revisione” del Jcpoa è fuori discussione, anche se sono gli europei a proporla. “Anche se gli alleati degli Usa, specialmente gli europei, tentano di rivedere l’accordo, una delle nostre opzioni sarà ritirarci da esso”, ha detto Velayati.

Posto che è praticamente impossibile convincere gli iraniani a rimettere mano al deal, e che gli Stati Uniti quasi certamente il 12 maggio annunceranno la reintroduzione delle sanzioni contro Teheran, gli europei si vedono costretti a pensare ad un piano B. Un piano che preservi il riannodarsi dei legami commerciali tra Europa ed Iran propiziato dalla sigla del Jcpoa. Basti pensare che le esportazioni di prodotti energetici dall’Iran in Europa nel 2016 sono cresciute del 344%, arrivando alla soglia significativa di 5,5 miliardi di euro, mentre gli investimenti europei in Iran hanno superato quota venti miliardi.

Era stato questo, d’altronde, uno dei motivi ispiratori del deal: la convinzione che, cancellando lo status dell’Iran di stato paria e riammettendolo nei circuiti del commercio internazionale, le relazioni tra Teheran e il resto del mondo si sarebbero distese. Era l’utopia di Barack Obama, grande sponsor del Jcpoa e persuaso che l’Iran, con la legittimazione ottenuta con l’accordo nucleare, si sarebbe comportato da potenza responsabile.

Di fronte alla prospettiva del crollo di tutto il castello, l’unica chance che rimane agli europei è di prendere atto del distacco statunitense, confermare la bontà del Jcpoa, rimanerne contraenti, e trovare un escamotage che metta al riparo le imprese europee che investono in Iran dalle sanzioni americane. Come ha spiegato a Reuters un funzionario governativo francese, qualora risultasse impossibile convincere Trump a non uscire dal Jcpoa, “la seconda migliore soluzione è incoraggiare gli americani a mantenere condizioni che mettano le nostre aziende nelle condizioni di continuare a commerciare” con l’Iran.

In Europa si pensa in particolare a ricorrere ad uno statuto sviluppato negli anni ’90 che non fu mai sperimentato e che scuderebbe le imprese europee che hanno legami commerciali con l’Iran dalle possibili ritorsioni legali americane che scatterebbero qualora Washington reintroducesse le sanzioni.

Questo, in sintesi, il piano B degli europei. Che deve fare i conti però con una realtà, ben illustrata da un funzionario iraniano che, pur dichiarandosi soddisfatto del sostegno europeo al Jcpoa, sostiene che se le aziende del Vecchio Continente “dovranno scegliere tra fare affari con l’Iran e con gli Stati Uniti, sceglieranno gli Stati Uniti”.

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