Abbiamo l’abitudine, che sembra diventata prassi culturale, di dare risposte semplicistiche e localistiche a problemi complessi e globali. Nessuna delle sfide che oggi viviamo nei nostri territori ha più origine in essi. Tra l’altro, le frontiere del digitale e dell’intangibile problematizzano profondamente i territori fisici che conosciamo e riconosciamo, i confini e l’essenza stessa dello Stato-Nazione. Va da sé che anche quella che Henry Kissinger (Ordine globale, 2017, pag. 365) chiama l’essenza dell’arte di governo … raggiungere un compromesso tra i due aspetti dell’ordine – potere e legittimità –, cambia profondamente.
Tema peraltro nel dibattito di questi anni, va detto con grande chiarezza che la geopolitica classica ha fatto il suo tempo. In un mondo come l’attuale, è evidente l’assenza di visioni progettuali; le sfide “emergenti”, non nuove, fanno andare in tilt la nostra mentalità dominante che fatica a “contaminarsi” nella realtà. Ogni persona che vive-nel-mondo, non i popoli (“entità” da ripensare), vive – ciascuno in modo originale e non ripetibile – i traumi profondi e generati nell’attuale, e de-generante, fase di una globalizzazione non globale. Ri-tornare a ogni persona significa pensare che l’arte di governo deve sempre di più immedesimarsi nei problemi storici visti dalla parte di chi li subisce ogni giorno; tutto questo nel quadro di società atomizzate e frantumate, dove le rel-azioni si spezzano in nome della necessità di sopravvivere. Solo ad esempio: un conto è raccontare le crescenti diseguaglianze da parte di economisti accademici, un altro è ascoltarne la gravità da parte di chi – magari padre di famiglia – non riesce a mettere il piatto a tavola.
La politica, qui intesa nel senso di “classe dirigente”, è a un bivio: o limitarsi a prendere atto che il disagio si è fatto consenso (e che la realtà non può che essere governata attraverso compromessi) o avviare una grande operazione di ri-pensamento (dai fondamenti alle strategie), lavorando per un’ “alleanza di senso” con il mondo della scienza, dell’economia, dell’amministrazione. Nella seconda scelta, che com-prende la prima come dato-di-realtà e che auspico, il mio pensiero è che si debbano percorrere i sentieri, ancora ben poco battuti, di una “politica complessa” che si ri-pensi, al contempo, come arte della mediazione dei rapporti di forza e degli interessi particolari e come scienza della progettualità umana.
Senza questa dimensione complessa, infatti, la prospettiva della politica è di morire nel suo “non senso”, nel suo essere vuota, prima che incapace di affrontare i problemi. Si dovrebbe andare verso una politica “in-capace” che ri-trovi ,nel profondo delle sue capacità, prospettive di senso nella realtà-che-è, ri-pensando un pensiero strategico. La sfida è aperta: il lavoro per un progetto di civiltà passa attraverso il ri-pensamento della politica in senso complesso.