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Cosa penso (senza fronzoli) di Savona e della sovranità limitata dell’Italia

Di Andrea Cangini

Il professore Paolo Savona ha senz’altro i titoli e l’esperienza necessari per svolgere la funzione di ministro dell’Economia. Il veto posto dal Quirinale sul suo nome è perciò un veto politico. Un veto ispirato da fattori esterni: le resistenze di Berlino, che ne teme la spinta anti tedesca; l’ostilità delle istituzioni europee, più è più volte criticate dall’economista sardo; le riserve dei mercati finanziari, condivise dalla Bce, che pronosticano per l’Italia giallo-verde una deriva greca. Il Presidente Sergio Mattarella si è perciò fatto carico di un’interpretazione dell’interesse nazionale figlia del contesto internazionale ma difficilmente conciliabile con l’articolo 1 della Costituzione in base al quale “la sovranità appartiene al popolo”. In un Paese senza memoria, giova ricordare che non si tratta di una novità.

La Prima repubblica nacque da una guerra persa e i suoi passi furono da subito condizionati dagli interessi e dalla visione geopolitica dei vincitori angloamericani. “Paese a sovranità limitata”, “doppio Stato” e “democrazia incompiuta” sono i concetti con cui, negli anni, importanti politologi hanno riassunto la nostra, non felice, condizione nazionale. In un articolo del 1980, Norberto Bobbio parlò di “criptogoverno”, per alludere alle diverse forze prevalentemente estere che ne determinano le scelte. Un “potere invisibile”, ma assai incisivo. Francesco Cossiga era solito ricordare che nessun ministro degli Esteri italiano poteva essere nominato senza il via libera americano, che il destino tragico di Moro così come quello di Craxi dipesero dalla loro trasgressione rispetto agli interessi della Nato, che al successo di Mani Pulite concorse l’Fbi, che il piano di privatizzazioni italiane fu deciso a bordo di un panfilo della Corona britannica, il Britannia, ormeggiato nel giugno del 1992 al largo del golfo di Napoli. E poi ci sono i vincoli europei e quelli, non codificati ma oggettivi, derivanti da un’economia ormai globalizzata dove la finanza la fa da padrona. Nelle intenzioni dell’élite italiana, l’Europa nacque per assoggettare l’Italia ad un “vincolo esterno” che la obbligasse alla virtù di bilancio. E fu quel vincolo, unito alle spinte nevrotiche dei mercati finanziari, a suggerire nel 2011 all’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di costringere alle dimissioni il governo Berlusconi. Governo che godeva ancora della fiducia del Parlamento. Un “golpe”? In un certo senso sì, fu un golpe. Cioè un rovesciamento dell’assetto politico democratico deciso da pochi a prescindere dalla volontà generale.

In Italia, dunque, la sovranità appartiene al popolo sulla Carta, non nella realtà. Ma sarebbe ingenuo pensare di sovvertire questa infelice condizione a colpi di ukase e rovesciando i tavoli. Chi lo lascia credere è in malafede o, peggio, si illude per ignoranza o ingenuità. Difendere la sovranità popolare è missione nobile e giusta. Ingannare il popolo prospettandogli approdi irraggiungibili è operazione non diversa da quella posta in essere da chi ne intende minare la sovranità. I presupposti di un cambiamento reale sono due, e due soli: la credibilità e la forza di chi se ne fa interprete. Non sembra che gli allegri interpreti di un ipotetico governo giallo-verde ne dispongano. Di certo c’è solo che la loro astratta esuberanza ha già provocato danni per decine di miliardi all’Italia.

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