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Scienza e tatto : le due facce della medaglia nell’ opera di Bernard Berenson

Il bel libro di Rachel Cohen, BERNARD BERENSON da Boston a Firenze, edito da Adelphi, nell’altrettanto bella e raffinata traduzione di Mariagrazia Gini, ci trasporta in un viaggio molto appassionato ed erudito da Boston a Firenze sulle coordinate del caso Bereson.
Il figlio di un venditore di stoviglie ebreo, Bernard Berenson, arrivò in Italia a soli venticinque anni ma dopo essersi trasferito dalla Lituania a Boston in una città del West End fredda d’inverno e troppo calda d’estate.
A Boston il giovane Bernard frequentò l’ateneo di Harvard che diventò il “giudice” delle sue ambizioni intellettuali , quando nella Boston altolocata del 1875, gli studiosi provenivano da famiglie arricchite e Harvard rappresentava un sacro rito di iniziazione per gli Ebrei, i quali , in quegli anni erano poco meno di seimila residenti.
Bernard fu un assiduo frequentatore della biblioteca pubblica di Boston dove chi lo incontrava notava in lui un ragazzo solitario, dal bell’eloquio, capace di bei discorsi incentrati già sulla poesia, sulla pittura e la cultura in generale, soprattutto attratto dagli Umanisti del Quattrocento che divennero i suoi punti di riferimento costanti. La frequentazione assidua della biblioteca, in cui lesse libri sullo spazio interstellare, sui miti greci , le poesie di Samuel Taylor Coleridge e i saggi di George Eliot caratterizzò la sua formazione di studente serio, dotato di memoria prodigiosa e con uno spiccato talento nell’apprendere ed usare le lingue straniere tanto che, in più situazioni, diede l’impressione di essere uno “stregone delle parole” tanto erano ricche le sue dissertazioni. Già in giovane età, questo intellettuale ebreo amante dell’arte, bibliofilo e uomo di lettere riconobbe che il linguaggio è un amico dell’uomo ed è l’amico che gli fa riconoscere il desiderio di dedicarsi alla scrittura. Proprio l’attività di scrittore diventa per lui il suo interesse principale insieme all’arte, ma anche il suo profondo cruccio nella duale convinzione di essere e non essere capace di scrivere. Mentre la scrittura fu una fucina che lo rilegò in soffitta ed in biblioteca, in solitudine con se stesso, la lettura lo mise in contatto con il mondo culturale ed intellettuale e soprattutto con la parte femminile di questo mondo così stimolante ed illuminato.
Nel 1885 si converte al Cristianesimo come a sottolineare la sua grande capacità di metamorfosi, questa conversione fu il risultato di una forte tensione dovuta soprattutto al suo coinvolgimento nell’arte italiana, una sorta di cristianesimo estetico che lo attrasse a sé.
Viveva una forte attrazione delle opere d’arte e un forte contrasto interiore tra il desiderio di ricchezza ed indipendenza , desiderio di divenire uno scrittore affermato e insicurezza acutissima di poterlo diventare. Anche i suoi studi subirono conversioni piuttosto travagliate e dopo essersi dedicato al manoscritto Talmudo -Rabbinical Eschatology, considerato la sua Tesi di Laurea, nel quale sono raccontate e descritte le credenze degli ebrei russi sulle questioni escatologiche, le leggende, le superstizioni , il numero degli angeli che siedono accanto alla salma dopo la morte, quali sono i metodi di memoria per ricordare il proprio nome nell’oblio della morte , quale il significato degli ottocentomila alberi piantati in tutti gli angoli del paradiso, e le ricchissime descrizioni e narrazioni bibliche che egli conduce in maniera dotta, afferma che questo mondo è destinato a morire in fretta e che se avesse dovuto istruire un ragazzo non gli avrebbe fatto studiare il sanscrito, l’ebraico o l’assiro ma i classici greci e latini.
Il suo lavoro fu molto apprezzato soprattutto dal professor Toy che notò la sua inusuale e brillante capacità di mescolare la conoscenza delle Lettere orientali ed occidentali, ma egli maturò l’idea che la Filologia Comparativa, materia che aveva portato avanti sapientemente, era un sistema che propinava fatti senza avere la capacità di educare, mentre le lezioni di arte procuravano ai giovani un’attrazione inconsapevole ed una sottile ed acuta educazione estetica.
Le sue capacità vennero ben presto a cozzare con i giudizi del professor Charles Eliot Norton che lo ritenne più ambizioso che capace e lo tratteggiò in quello stereotipo dell’ebreo sgomitante per il quale sarebbe stato impossibile diventare un professore di storia dell’arte all’università a cui aspirava egli , come critico d’arte.
Ed ecco che Rachel Cohen ci accompagna nel viaggio che Berenson compì nel gennaio 1888 per stabilirsi in Inghilterra ad Oxford , dove avrebbe incarnato lo spirito dell’uomo di mondo inglese con spiccato gusto e raffinata eleganza, nonostante non avesse ancora i mezzi per poter realizzare la sua vita di perfetto dandy inglese.
Ad Oxford conobbe Oscar Wilde il quale gli regalò , facendogli come si narra qualche avances, una copia fresca di stampa de Il ritratto di Dorian Gray, romanzo che egli trovò intollerabile, senza peraltro nascondere questa critica all’autore , al quale confidò durante un invito a pranzo questo suo giudizio negativo nei confronti del protagonista che nascondeva in una soffitta l’immagine di sé deturpata dal vizio , rispetto all’ immagine che mostrava al mondo bella ed imperitura. Forse Berenson trovava affine alla sua storia personale le vicende di Dorian Gray ed equiparava la sua volontà di nascondere le radici ebree, all’incapacità di palesare la propria omosessualità delle molte persone che frequentava in Inghilterra. Trovava che il pregiudizio sull’ omosessualità fosse un tabù, ma riteneva di doversi conformare alle aspettative sociali su questa visione, per non agire isolati e divenire creature anormali verso il gruppo sociale in cui si era immersi.
Con la sua produzione letteraria riguardante le attribuzioni , la missione di Berenson e della moglie Mary Costelloe che viveva in Inghilterra, e che conobbe ad una conferenza a Boston incentrata sul solo nome. “ Botticelli”, era spiegare al lettore non esperto il mondo affascinante delle opere rinascimentali fiorentine. Mary Costelloe scrisse che si innamorò di lui a causa dell’Italia e che l’Italia divenne importante per Bernard a causa di lei. Si stabilirono a Firenze, a Villa I Tatti dove si respirava l’atmosfera cosmopolita degli incontri e degli ospiti, l’atmosfera vivace e “illuminata” della casa di Voltaire.
Quando contemplava un’opera ne era completamente rapito, prima che Mary lo convincesse a redigere ed ordinare le sue osservazioni e le attribuzioni nei cataloghi.
il pittore, secondo Berenson, doveva costruire la terza dimensione e l’osservatore, fruitore doveva coglierne i valori tattili
attraverso l’immagine fissata sulla retina, avere la sensazione di poter toccare le forme delle cose.
Nel 1895 Berenson cominciò a scrivere la serie dei “ Pittori fiorentini” e si dedicò allo studio delle qualità formali della pittura, a differenza degli studi iniziali quando era maggiormente concentrato a delineare la personalità degli artisti, piuttosto che le pennellate e i pigmenti di colore. In quegli anni i lettori non esperti e non specializzati non conoscevano assolutamente Giotto, Masaccio, il Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, il Ghirlandaio, sapevano a malapena di Leonardo e Michelangelo
e delle loro intuizioni matematiche della prospettiva e della profondità, era difficile quindi far arrivare alla comprensione dei valori tattili delle forme.
Fu sempre il professor Norton con una recensione ad una monografia di Lorenzo Lotto, a denigrare i metodi di attribuzione usati da Berenson e denominati “ dell’orecchio e dell’unghia del piede”. Ma Berenson che amava la pittura rinascimentale fiorentina la quale non illustrava più le narrazioni lungo le pareti, ma si poneva frontalmente all’osservatore posto come davanti ad uno specchio, o ad una finestra in cui entrava in un altro mondo prospettico, la teoria dei valori tattili fu un tentativo di individuare le basi generali e fisiologiche dell’esperienza estetica. Le attribuzioni sistematiche sono fondamentali per Berenson, per capire non solo le produzioni dei singoli pittori, ma di questi e dei rapporti con le varie scuole e dei rapporti tra gli artisti ed i loro allievi.
Il “ problema delle attribuzioni è sempre stato il confronto” e la metodologia di Berenson ha avuto un grosso merito nell’ indagine psicologica ed estetica dell’arte, anche se la sua teoria è stata vista da certa critica e dall’indagine scientifica come un libro di medicina alternativa rispetto ad un trattato scientifico ufficiale.
Ma il merito di Berenson nei valori tattili fu di avergli dato la possibilità di mettere in relazione il nudo di Michelangelo e il paesaggio di Cezanne, creando un caposaldo della critica d’arte formalista: raggiungere il concetto di significatività materiale e spirituale della forma.
Con la sua geniale capacità di visione, memoria e tecnica Berenson avrebbe potuto stabilire migliaia di attribuzioni del Rinascimento che egli soleva chiamare “liste” ma avrebbero avuto il merito di potersi definire enciclopedie.
Due progressi tecnologici permisero uno sviluppo negli studi dell’arte e dell’attribuzione e questi furono: le ferrovie per raggiungere le città dove si trovavano le opere più lontane e la fotografia.
Berenson lasciò alla sua biblioteca di Haward trecentomila fotografie .
Il libro di Rachel Cohen ci fornisce un dipinto di Bernard Berenson completo, dove si può leggere della sua persona e della sua formazione sia davanti che dietro , come i dipinti di Leonardo. La narrazione di Cohen è un dietro le quinte degli studi d’arte pittorici e delle attribuzioni dove si colgono costanti e variabili molto determinate ed intimistiche di un mondo dedicato agli studi e alla ricerca quando si poteva contare su pochi strumenti di indagine tecnica. Un mondo affascinante che cercava un equilibrio ed una moralità tra arte , attribuzione, critica, estetica e mercanzia. Un equilibrio mancato che ha intrecciato le fila di una trama storica della ricerca con i limiti e le fortune del mecenatismo il quale, nonostante tutto, ha avuto il merito di offrire celebrità alle opere e agli artisti, i quali hanno dovuto conformare il loro ideale a quello imposto dal compromesso del mecenate. Nella “visione retrospettiva” la Cohen ci regala un sintetico scambio tra Berenson e Proust il quale apprezza i libri e le pubblicazioni di Berenson dicendoglielo direttamente che sono stati per lui come il pane. Berenson appresa con dispiacere della morte di Proust scrive che è stato un peccato che egli non abbia potuto apprezzare l’analisi della vecchiaia perchè forse avrebbe avuto la capacità di cogliere lo sforzo del suo sapere enciclopedico sui pittori italiani, continuando a collezionare personalità…in fondo si tratta per Berenson di vivere “ Alla ricerca del tempo perduto”.

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