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Vi spiego come leggere i dati Sipri sulla spesa militare. Parla Vincenzo Camporini (Iai)

balcani cina

Se la Cina dimostra ambizioni da potenza globale anche attraverso la spesa militare, negli Stati Uniti è già apprezzabile l’effetto Trump, molto attento a non perdere terreno rispetto a Pechino. Intanto, in un’Europa a traino franco-tedesco, l’Italia rischia di rimanere indietro se non invertirà con decisione il trend negativo del bilancio difesa. Parola del generale Vincenzo Camporini, vice presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai) e già capo di Stato maggiore della Difesa, che abbiamo contattato per commentare l’ultimo report dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) relativo alle spese militari. Nel 2017, nota l’Istituto di Stoccolma, il dato globale è aumento dell’1,1%, raggiungendo quota 1.739 miliardi di dollari. A trainare i numeri sono stati i Paesi asiatici (Cina e India su tutti) e il Medio Oriente, che conferma il trend di forte crescita degli ultimi anni. L’Europa intanto arretra, e l’Italia ancora di più, con una riduzione del 17% nella spesa militare nell’ultimo decennio.

Generale, cosa l’ha stupisce di più dell’ultimo report di Sipri?

Come sempre, mi ha stupito a vedere certe cifre e notare le conseguenze che se ne traggono. C’è, infatti, una questione di misurazione che va evidenziata: misurare le spese sulla quantità di quattrini erogati è privo di significato, poiché manca del tutto il parametro del potere d’acquisto. La spesa cinese è poco più di un terzo della spesa americana, ma bisogna poi dire che i costi dei soldati e dei velivoli di Pechino sono una frazione dei costi per i soldati e i velivoli americani. Il puro dato della spesa non dà l’idea reale della capacità operativa.

Sembrerebbe dunque più utile considerare i trend percentuali. In questo senso, la spesa globale aumenta soprattutto in Asia, mentre si riduce nel Vecchio continente e resta stabile in America. Si stanno spostando gli equilibri di potere?

Sì, non c’è dubbio. Dal punto di vista degli equilibri globali, il peso dell’area asiatica è in crescita, sostenuto dalle influenze politiche di quei Paesi. Oltre a Cina e India, si dovrebbe considerare anche l’Indonesia, forse troppo spesso sottovalutata in queste considerazioni nonostante abbia una popolazione di oltre 255 milioni e sia il Paese musulmano più grande al mondo, con un peso negli equilibri geopolitici crescente. L’Asia sta insomma acquisendo una rilevanza che negli ultimi due secoli non ha avuto, cambiando di fatto la geografia mondiale. Considerando anche i dati relativi all’Oceania, il trend riflette le preoccupazioni circa la stabilità dell’area.

Il Medio Oriente conferma la crescita degli ultimi anni e registra un +6,2% rispetto al 2016. Come va letto il dato? La regione è destinata a una sempre più consistente militarizzazione?

Purtroppo anche qui devo rispondere sì. Tuttavia, a volte fatico a comprendere la saggezza di certe spese militari. L’Arabia Saudita, ad esempio, ha un potenziale umano numericamente molto limitato rispetto ad altri Paesi dell’area (come l’Iran), eppure acquista in modo compulsivo senza chiedersi chi metterà sopra i nuovi mezzi militari. Tra l’altro, le prestazioni militari saudite in Yemen non sono esaltanti, e ciò testimonia che un problema di management esiste.

Gli Stati Uniti restano la prima potenza militare mondiale e coprono il 35% della spesa globale. Eppure, nell’ultimo decennio, l’impegno finanziario Usa si è ridotto del 14%. L’effetto Trump non è ancora apprezzabile? Ci sarà?

L’effetto Trump è nei fatti. Anche qui però occorre chiarire un punto: la disponibilità delle risorse per il Pentagono è già significativamente aumentata con la nuova amministrazione, eppure con disponibilità non si intende spesa, poiché per comperare bisogna avere qualcosa da comperare. Il caso dell’ambizione di una Marina militare a 355 navi è emblematico. Oltre alla disponibilità di risorse per acquistarle, servono navi da comprare, ma la loro costruzione non è ancora iniziata. Dunque, la spesa militare è diversa dalla disponibilità finanziaria, ma non c’è dubbio che Trump abbia già cambiato l’atteggiamento della presidenza sul tema.

Tornando all’Asia, i dati Sipri mostrano il forte aumento nella spesa di tantissimi Paesi che circondano la Cina. È l’effetto dell’assertività di Pechino?

Sì, non ho assolutamente dubbi. D’altronde, c’è la sensazione che il mondo sia entrato in una fase di grande instabilità, in cui i Paesi sono disposti a pagare un’assicurazione più elevata per la propria sicurezza. La Cina ha un disegno ben chiaro di espansione e posizionamento come potenza globale, in cui gli interessi nazionali non si curano degli interessi di altri. Emblematico, ma non isolato, quanto sta avvenendo nel Mar cinese meridionale, o l’aumento delle basi militari di Pechino in giro per il mondo. Si pensi alla base di Gibuti, una cosa assolutamente impensabile fino a qualche anno fa. Tutto questo conferma un atteggiamento di espansione.

Il Vecchio continente arretra per il primo anno dal 2013. La difesa europea potrebbe invertire il trend?

Per ora siamo soltanto di fronte a dichiarazioni, accordi e trattati; c’è poco di concreto. Anche il caccia franco-tedesco, recentemente annunciato per la seconda volta, è un progetto che avrebbe costi che, oggi come oggi, dubito che Francia e Germania sarebbero desiderose di affrontare. In definitiva, non credo che quello che sta accadendo in tema di difesa europea influisca in modo significato. Il Fondo di difesa europeo (Edf), istituito dalla Commissione, presenta ad ora numeri irrilevanti se confrontati con le cifre di cui abbiamo parlato.

Tra i Paesi europei è la Francia a spendere di più, seguita da Regno Unito e Germania. Quanto contano questi livelli di spesa nella nascente Difesa comune?

Rappresentano sicuramente uno dei parametri fondamentali, ma non il solo. Bisognerebbe ad esempio considerare la disponibilità all’impiego, un elemento che gli inglesi hanno nel loro dna. Ciò pone un grosso problema che l’Europa dovrà affrontare nel caso di una Brexit che comporti l’esclusione del Regno Unito dall’insieme militare europeo. Mancherebbe infatti la rilevante disponibilità inglese a mandare uomini nei teatri operativi.

La Russia riduce per la prima volta dal 1998 la propria spesa militare, con un -20% in termini reali rispetto al 2016. Come legge questo dato?

È chiaro che il Paese abbia problemi di carattere strutturale, dalla questione demografica a quella economica, con un sistema che non è ancora riuscito a introiettare il concetto di innovazione, puntando solo su rendita energetica e petrolifera. Ci sono dunque degli evidenti limiti sociali ed economici che giustificano tale dato.

Tra i primi 15 Paesi per spesa militare, l’Italia presenta la riduzione più forte dal 2008-2017. Siamo destinati a scivolare fuori dalla graduatoria? Quanto conta per il Paese tornare a investire nel settore?

Riguardo al nostro Paese, quando osservo i dati Sipri, mi domando dove prendano i numeri. In qualità di capo di Stato maggiore della Difesa ho gestito il bilancio difesa per anni, e mi chiedo come abbiano fatto ad arrivare a una cifra del genere: 29,2 miliardi di dollari nel 2017. Probabilmente, tengono in conto anche le spese per i Carabinieri, per la Guardia di Finanza e per le pensioni. Altrimenti una cifra del genere non starebbe né in cielo né in terra, anche contando le spese del Mise e le missioni estere. Ad ogni modo, è chiaro che in termini di standing internazionale il nostro Paese stia arrancando; abbiamo difficoltà a stare insieme agli altri. Per l’Eurodrone, ad esempio, abbiamo impiegato due anni per stanziare i 20 milioni necessari a partecipare alla fase iniziale del programma. D’altronde, per evitare di trovarci in difficoltà nei confronti degli altri, servono soldi. Ciò vale anche in questo contesto di paralisi parlamentare, dovuta a fatti istituzionali che impediscono il procedere della riforma delle Forze armate prevista nel Libro bianco della Difesa, bloccato in commissione Difesa del Senato. Tenuto conto di tutto questo, temo che conteremo sempre di meno.

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