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Gli slogan di Bannon sono icastici ma vuoti. L’opinione di Gramaglia (Iai)

È stato in Italia prima delle elezioni, ci è tornato per salutare la nascita di un governo populista – appuntamento abortito -, assicura di volerci di nuovo venire per la prossima campagna elettorale: Steve Bannon, ex stratega della campagna elettorale di Donald Trump ed ex consigliere strategico del presidente Usa alla Casa Bianca – “Non sono stato licenziato, mi sono dimesso” -, ex produttore a Hollywood ed ex presidente di Breitbart News, pare politicamente “innamorato” dell’Italia, laboratorio europeo – insieme all’Ungheria – del suo progetto populista. “I viaggi me li pago io”, risponde a chi gli chiede chi foraggia le sue missioni transatlantiche.

Nei giorni immediatamente precedenti il fallimento del tentativo di fare un governo giallo-verde, Bannon ha manifestato con vigore il suo appoggio al professor Savona e al duo Di Maio – Salvini. “Non li conosco, non li ho incontrati – anche se riconosce vi siano documentazioni di un incontro tra Salvini e Trump nella campagna elettorale di Usa 2016, ndr -, non ho letto i libri di Savona”.

Ma ha letto – dice – il Contratto di Governo tra M5S e Lega, di cui fa l’elogio: un documento “preciso, dettagliato”, in cui c’è tutto (e di tutto). Snocciola formule slogan e pochissimi dati, nessuno preciso: “Il Partito di Davos e di Bruxelles contro il Partito del Popolo”, “I veri neo-fascisti sono coloro che s’oppongono al Governo del Popolo”, ai “due terzi, o oltre il 60% degli italiani, che li hanno votati”, Di Maio e Salvini.

Nel backstage, mi dice: “È il giorno più importante per l’Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”. Azzardo: “Beh, ci capitò di scegliere tra Monarchia e Repubblica”. Sul palco, ripete l’affermazione, poi l’attenua: “Uno dei più importanti”.

Bannon non si preoccupa della cura formale: è vestito dimesso, quasi trasandato, la camicia non fresca sopra la polo, una giacca stazzonata, la barba lunga. Quando parla, o ti guarda, lo sguardo s’accende a tratti d’una luce di furbizia, o di malizia. Sul palco di Roma Eventi, dove Formiche lo ha invitato a parlare di fronte a un pubblico folto e non condiscendente, la sua retorica ricorda quello di Trump (e di Salvini, che un po’ l’ha mutuata): affermazioni apodittiche, magari icastiche, ma vuote. L’euro è il male – perché? -, l’Italia “conta” per l’America – ma come mai non ci date mai retta?, sul clima, l’Iran, Gerusalemme, i dazi? – e “soffre d’una crisi di sovranità” – senza l’Europa, ne avremo ancora di meno -, il potere “s’è tolto la maschera”.

E l’America? Quasi non ne parla. Trump – dice – sta realizzando la sua agenda, “deve ancora tirare su il Muro”, il resto è fatto: riforma fiscale pro-ricchi, assistenza sanitaria solo a chi paga, uscita dal Trattato di Parigi sul clima, abbandono dell’accordo sul nucleare con l’Iran, bombardamenti sulla Siria e trasferimento dell’ambasciata in Israele a Gerusalemme, denuncia dei patti commerciali e minacce di dazi. W l’Europa!



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