È una complicata partita a scacchi, quella che Stati Uniti, Europa ed Iran stanno conducendo sul Jcpoa, l’accordo sul nucleare da cui gli Stati Uniti sono usciti poco più di due settimane fa. Come ha fatto notare l’analista Nicola Pedde ieri sull’Huffington Post, l’America ha di fatto dichiarato guerra all’Iran, abbandonando un’intesa faticosamente negoziata per dodici anni e reintroducendo le sanzioni contro Teheran a dispetto del fatto che il paese, come ha confermato l’Iaea giusto ieri, sta pienamente rispettando i termini dell’accordo.
Ma l’amministrazione Trump ha optato per una politica di contrasto a tutto campo dell’Iran, nella convinzione che la sua politica estera e militare sia il principale fattore di destabilizzazione del Medio Oriente. L’abbandono del Jcpoa rappresenta la conseguenza necessaria di un cambio di passo degli Stati Uniti, che si mettono alle spalle la distensione con Teheran fortemente voluta dall’ex presidente Barack Obama e, sotto Donald Trump, ambiscono a ridimensionare le ambizioni egemoniche di Teheran sul Medio Oriente che tanto preoccupano i principali alleati degli Usa, da Israele all’Arabia Saudita.
Il Vecchio Continente ha incassato con un misto di sconcerto e rammarico l’uscita degli Usa dal Jcpoa, e da allora sta cercando una soluzione ai problemi che la scelta americana comporta. Gli Usa infatti, tramite il loro segretario di Stato Mike Pompeo, hanno promesso di introdurre “le più forti sanzioni della storia” e di sottoporre l’Iran ad una “pressione finanziaria senza precedenti”, mettendo a rischio i numerosi accordi economici che gli europei hanno siglato con Teheran dopo la sigla del Jcpoa.
Ed è proprio di questo che oggi si discuterà in un incontro a Vienna, presieduto dall’Unione Europea, tra il vice-ministro degli esteri iraniano e i diplomatici dei paesi firmatari del Jcpoa: Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia e Cina. Il meeting è stato organizzato con l’intenzione di mettere a punto una strategia per salvare il salvabile del Jcpoa, in particolare le esportazioni di petrolio iraniano e gli investimenti stranieri in Iran. Una missione non semplice, perché le sanzioni americane – specialmente quelle secondarie, che prendono di mira le aziende straniere che fanno affari con Teheran – morderanno fortemente, e rischiano di azzerare le relazioni economiche che il regime è riuscito a intessere dal 2015 ad oggi.
La settimana scorsa, durante un meeting alla presenza dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Unione Europea Federica Mogherini, i ministri degli esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna si sono impegnati a fare il possibile affinché l’Iran continui ad esportare il proprio petrolio e a ricevere investimenti dall’estero. Una promessa fatta però con la consapevolezza che in questo modo si rischia una drammatica lacerazione delle relazioni transatlantiche.
Il duro discorso con cui Pompeo lunedì ha illustrato la nuova strategia americana nei confronti dell’Iran è stato come “una doccia fredda”, ha ammesso un diplomatico europeo che parteciperà all’incontro di oggi a Vienna. “Tenteremo di aggrapparci all’accordo”, ha aggiunto, “ma non ci facciamo grosse illusioni”.
Gli iraniani, dal canto loro, fanno affidamento sulla capacità degli europei di resistere alle pressioni americane. L’incontro di oggi, ha spiegato a Reuters un funzionario iraniano, mostrerà se gli altri contraenti del Jcpoa “sono seri sull’accordo o no” e se “gli europei possono darci o meno garanzie affidabili”.
Il ministro degli esteri iraniano Mohammed Javad Zarif ha detto ieri che si attende dalle potenze firmatarie del Jcpoa (esclusi gli Usa) che presentino un “nuovo pacchetto” che però non esuli dai termini dell’intesa e non includa quindi “ulteriori temi”. Il riferimento è alle condizioni che gli americani hanno posto agli iraniani, che vorrebbero rinegoziare un nuovo accordo che preveda la sospensione del programma balistico di Teheran, la cessazione delle attività militari di Teheran nella regione, con particolare riguardo alla Siria e allo Yemen, la concessione agli ispettori dell’Iaea di maggiori libertà per quanto concerne le ispezioni ai siti nucleari, e l’estensione della durata del Jcpoa, le cui clausole scadono a dieci o quindici anni dalla data (luglio 2015) in cui l’accordo è stato firmato.
Pur deplorando la scelta americana di uscire dal Jcpoa, gli europei hanno manifestato una certa disponibilità a tenere conto dei desiderata statunitensi, dimostrando di condividere almeno in parte le preoccupazioni di Washington. “La volontà europea di rimanere nell’accordo”, ha affermato ad esempio la portavoce del ministero degli esteri francese, “non implica che non nutriamo preoccupazioni per quanto concerne l’Iran. (…) Questo è il motivo per cui abbiamo proposto di istituire una cornice negoziale complessiva con l’Iran. Vogliamo che l’Iran comprenda il valore di un approccio cooperativo”.
Ma di cooperazione nei termini intesi dagli Stati Uniti, dalle parti di Teheran, non si vuole sentire affatto parlare. Lo dimostra il discorso ai leader della Repubblica islamica tenuto mercoledì dalla Guida Suprema, Ali Khamenei, nel quale ha chiesto agli europei di rispettare una serie di condizioni: a) dovranno proteggere le esportazioni petrolifere iraniane dalle sanzioni americane e continuare ad acquistare il loro greggio; b) le banche europee “devono garantire le transazioni commerciali con l’Iran”; c) Francia, Germania, Gran Bretagna “devono impegnarsi e promettere di non evocare in alcun modo domande sui missili iraniani e sulla presenza dell’Iran nella regione”. Khamenei ha precisato che se queste condizioni non saranno rispettate, l’Iran riprenderà ad arricchire l’uranio oltre al livello del 20% attualmente consentito dal Jcpoa.
Gli europei, dunque, si trovano tra l’incudine della risolutezza americana e il martello della determinazione iraniana a non cedere di un millimetro. Tutto lascia intendere, pertanto, che i colloqui di oggi saranno solo il primo capitolo di un lungo braccio di ferro. Un braccio di ferro che gli europei, da sempre strenui sostenitori del Jcpoa, avrebbero evitato volentieri.