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Libia, perché la crisi interna preoccupa anche Ciad, Niger e Sudan

Di Umberto Profazio
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Il 31 maggio i ministri degli Esteri di Ciad, Libia, Niger e Sudan hanno firmato un protocollo di cooperazione securitaria a N’Djamena, Ciad. L’incontro, al quale ha partecipato il ministro degli Esteri del governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale Mohamed Taher Siala, mira a rafforzare i controlli lungo le frontiere comuni, al fine di contrastare traffici illeciti e di limitare i movimenti transfrontalieri dei diversi gruppi presenti nell’area. Secondo fonti ufficiali, il protocollo prevede l’istituzione di pattuglie miste per presidiare i confini desertici tra i quattro Paesi, così come la creazione di un centro di comando e controllo per dirigere le operazioni. Un organo intergovernativo terrà riunioni periodiche per valutare i progressi delle operazioni, con la possibilità di usufruire di assistenza e supporto di Paesi terzi.

L’accordo fa seguito all’incontro tenutosi a Niamey, Niger, il 3 aprile, in cui Ciad, Libia, Niger e Sudan si accordarono per stabilire un meccanismo di cooperazione per la sicurezza delle frontiere. Nell’occasione, i quattro Paesi espressero gravi preoccupazioni per la situazione nella Libia meridionale, divenuta “un focolaio di continue minacce alla sicurezza dei quattro Paesi”.

LA BATTAGLIA DI SABHA

Sia dall’incontro di N’Djamena che da quello di Niamey risulta evidente il timore del propagarsi della crisi libica in un’area già ampiamente destabilizzata e fragile come quella del Sahel. A sette anni dalla rivoluzione che pose fine al regime di Muammar Gheddafi, la Libia risulta ancora priva di istituzioni legittime e unitarie, vittima di un processo di frammentazione su base regionale e locale che pare al momento irreversibile. Tale processo ha avuto effetti nefasti non solo lungo la fascia costiera, più popolosa e maggiormente coperta dai media locali e regionali, ma anche nel vasto entroterra desertico del Fezzan, da dove giungono solo poche e frammentarie notizie.

Sabha, dove le tensioni tribali sono nuovamente sfociate in scontri armati alla fine di gennaio, ha rappresentato indubbiamente l’epicentro del conflitto. Gli scontri, che hanno contrapposto la tribù araba degli Awlad Suliman alla minoranza etnica dei Tebu, sono proseguiti nei mesi successivi provocando numerose vittime. La crisi ha mostrato tutti i limiti dell’azione diplomatica internazionale, i cui sforzi hanno molto spesso prodotto accordi siglati all’estero che in Libia restano quasi sempre lettera morta. Un esempio è proprio l’accordo di riconciliazione firmato il 31 marzo 2017 a Roma tra Awlad Suliman, Tebu e Tuareg, il cui fallimento ha fornito al capo dell’intelligence di Misurata Ismail Shukri l’occasione per lamentarsi delle interferenze straniere in Libia e dei loro effetti perversi sul tessuto sociale del Paese.

I TENTATIVI DI COOPTAZIONE DI HAFTAR

Nonostante il conflitto di Sabha abbia una chiara dimensione locale, esso ha suscitato l’interesse dei principali attori protagonisti del confronto nazionale. Come avvenuto nel settembre 2017 a Sabratha, anche a Sabha il generale Khalifa Haftar ha cercato di cooptare milizie locali nel tentativo di estendere la sua influenza oltre la Cirenaica. Le sue attenzioni si sono rivolte verso la Sesta Brigata, composta prevalentemente da Awlad Suliman. Tuttavia, l’annuncio dato il 10 maggio che la Sesta Brigata era ormai parte integrante dell’Esercito nazionale libico (Enl) si è rivelato controproducente. Sorpresi e infastiditi, i miliziani Tebu hanno conquistato il Forte Elena, quartier generale della Sesta Brigata, allontanandola da Sabha e prendendo il controllo della città.

La sconfitta ha rappresentato un’importante battuta d’arresto per Haftar, le cui forze, impegnate nell’offensiva su Derna, non hanno evidentemente sostenuto il peso di due battaglie contemporanee su due fronti così distanti. Sotto pressione sul fianco sud, l’Enl si è sfilacciato, perdendo distanza tra le sue posizioni e fornendo l’occasione alle milizie ad esso avverse per sferrare nuovi attacchi. Il raid del 31 maggio contro la base aerea di Tamanhent, poco distante da Sabha, ha rappresentato un serio campanello d’allarme. Le forze di Haftar sono riuscite a respingere l’offensiva, accusando le Brigate di difesa di Bengasi (BdB) di essere responsabili dell’attacco.

L’INTRECCIO TRA JIHADISMO, MILIZIE STRANIERE E MERCENARI

Spesso accusate di far parte della galassia terroristica presente in Libia, le BdB si sarebbero appoggiate su alcune milizie straniere di stanza nel Fezzan, dove la presenza di gruppi di opposizione provenienti dai Paesi confinanti è ormai accertata. Tra questi, un ruolo importante è stato svolto negli scorsi anni dal Front pour l’alternance et la concorde au Tchad (Fact), che ha usato le vaste zone desertiche della Libia meridionale per stabilire basi e campi di addestramento. Considerato vicino alle fazioni islamiste in Libia e per questo contrario alle forze di Haftar, il Fact è nondimeno pervenuto ad una tregua con l’Eln.

Tuttavia le ostilità sono proseguite con il Conseil du Commandement Militaire pour la Salut de la République (Ccmsr), formazione nata da una costola del Fact e come quest’ultimo presente in Libia. A seguito di una serie di attacchi aerei compiuti contro le sue posizioni nell’area di Tarbu, nel marzo scorso il Ccmsr ha anche accusato il presidente ciadiano Idriss Déby di aver “appaltato” la lotta contro l’opposizione armata ciadiana in Libia all’Enl, alleandosi con Haftar.

Le accuse del Ccmsr fanno emergere un altro aspetto del conflitto in Libia, spesso trascurato: l’intreccio di alleanze che lega le diverse fazioni libiche ad attori statali e non statali presenti lungo i confini meridionali. Oltre al rilevante fenomeno dei mercenari, molti dei quali presenti non solo a Sabha ma anche in altri teatri del conflitto libico, si può rilevare anche l’appoggio dato ad Haftar dai vari gruppi di opposizione sudanesi. Tra questi figura non solo il Justice and Equality Movement (Jem), ma anche il Sudan Liberation Movement-Minni Minawi (Slm-MM): fonti sudanesi hanno di recente confermato l’arrivo in Sudan di una delegazione dell’Enl per discutere con l’Slm-MM l’invio di nuovi combattenti in Libia in supporto alle forze di Haftar, oltre a quelli già presenti, fino a raggiungere le 1.000 unità.

LINEE SULLA SABBIA

Alla luce della frenetica attività di gruppi terroristi, reti criminali transnazionali e milizie straniere lungo i confini meridionali della Libia, appare chiaro come il protocollo firmato il 31 maggio a N’Djamena sia un tentativo da parte di Ciad, Niger e Sudan di cautelarsi contro l’instabilità nel sud della Libia. In diverse occasioni i leader dei Paesi confinanti hanno espresso preoccupazione per il possibile ritorno dei gruppi di opposizione armata presenti nell’area, fino a spingere nel gennaio 2017 il presidente Déby a chiudere la frontiera con la Libia e a dichiarare l’area frontaliera zona militare per il timore di possibili infiltrazioni di militanti e gruppi terroristi.

Tuttavia, nell’occasione vennero espressi diversi dubbi sulla possibilità di potere chiudere una frontiera notoriamente porosa lungo una vasta area desertica come quella tra Ciad e Libia, difficile da controllare anche per le truppe ciadiane, considerate tra le meglio preparate nell’area. Con il protocollo firmato a N’Djamena, la speranza è che lo sforzo congiunto tra i diversi Stati consenta un monitoraggio più efficace di quest’area e dei suoi confini, vere e proprie linee sulla sabbia, dove, lontano da occhi indiscreti, si continua a giocare una partita importante non solo per la Libia ma anche per tutto il Sahel.

(Pubblichiamo l’analisi dell’Istituto Affari Internazionali)

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