Giunto ieri a Parigi nella seconda tappa del suo tour europeo, Benjamin Netanyahu ha reiterato al presidente francese Emmanuel Macron le esortazioni espresse il giorno prima alla cancelliera Angela Merkel: le nazioni del Vecchio Continente (Francia, Germania e Gran Bretagna) che hanno firmato nel 2015 l’accordo nucleare con l’Iran (Jcpoa) devono fare pressing sulla Repubblica Islamica affinché questa accetti le condizioni poste dall’America di Donald Trump, che lo scorso 8 maggio si è ritirata dall’Iran deal col proposito di negoziare con Teheran un nuovo accordo più stringente.
In Macron, Netanyahu ha trovato un interlocutore più disponibile di altri a prendere in considerazione le preoccupazioni di Gerusalemme e di Washington. Esattamente come Trump, il capo dell’Eliseo vorrebbe convincere l’Iran a siglare un nuovo patto che includa aspetti non compresi nel Jcpoa, che vanno dal prolungamento del deal oltre alla sua scadenza naturale nel 2025, alla questione del programma missilistico di Teheran fino all’avventurismo militare iraniano in Medio Oriente.
Allo stesso tempo, tuttavia, Macron rimane convinto – come gli altri firmatari dell’accordo ad eccezione degli Usa – della bontà del Jcpoa. Come ha spiegato nella conferenza stampa a margine del colloquio tra i due leader, Macron ha “espresso al primo ministro (Netanyahu) la mia profonda convinzione, che è condivisa dai nostri partner europei, che l’accordo deve essere preservato per assicurare il controllo dell’attività nucleare”.
Non è gettando alle ortiche il Jcpoa – è la posizione di Macron – che si terranno a bada le pulsioni marziali dell’Iran. Al contrario, l’uscita dal patto da parte degli Stati Uniti rischia di spingere Teheran, inferocita per le nuove sanzioni introdotte da Trump, a riavviare il proprio programma nucleare.
Non sono certo passate inosservate a Macron le dichiarazioni di lunedì della Guida suprema Ali Khamenei, che avrebbe dato istruzioni di tornare ad arricchire l’uranio oltre l’attuale soglia pattuita con le altre potenze qualora il Jcpoa dovesse venire meno. “Ho ordinato all’Agenzia iraniana per l’energia atomica di essere pronta a potenziare la nostra capacità di arricchimento” dell’uranio, ha minacciato l’Ayatollah. “I nostri nemici”, ha aggiunto, “non saranno mai in grado di arrestare il nostro progresso nucleare. (…) È il loro sogno e non si realizzerà”.
Nessuna apertura da parte di Teheran anche sulla questione del programma balistico, altro punto che americani ed israeliani vogliono affrontare in tandem con gli europei. “Alcuni europei”, ha detto ancora Khamenei, “stanno discutendo di limitare il nostro programma missilistico difensivo. Ma io dico agli europei, limitare il nostro lavoro coi missili è un sogno che non si realizzerà mai”. Identica la posizione su un’altra questione posta sul tavolo da America ed Israele e che ha trovato orecchie sensibili in Macron e Merkel: l’ingerenza iraniana nei vari conflitti che infuriano in Medio Oriente, a partire dalla Siria. “I (nostri) nemici”, ha tuonato la Guida, “non vogliono un Iran indipendente nella regione (…) Continueremo il nostro appoggio alle nazioni oppresse”.
Le esternazioni bellicose che giungono da Teheran hanno destato più di una preoccupazione a Parigi. “Chiedo a tutte le parti”, ha detto Macron in conferenza stampa, “di stabilizzare la situazione e non provocare un’escalation che porterebbe ad una sola cosa: il conflitto”.
Dal canto suo, Netanyahu è arrivato in Francia con la solita convinzione: bisogna contrastare “l’aggressione regionale” dell’Iran. La messa in discussione del Jcpoa rappresenta per il premier israeliano un tassello di una più vasta strategia che prevede di ostacolare il tentativo iraniano di egemonizzare il Levante e di minacciare le potenze della regione con un programma nucleare che il Jcpoa ha semplicemente congelato per un periodo di dieci anni.
Per il premier israeliano, in ogni caso, la sorte del Jcpoa è già segnata: ci penseranno le sanzioni americane a farlo crollare. “Non ho chiesto alla Francia di ritirarsi dal Jcpoa”, ha spiegato Bibi in conferenza stampa, “perché penso che si dissolverà sotto il peso delle forze economiche”.
Netanyahu non è affatto preoccupato per le conseguenze del venir meno dell’Iran deal, essendo convinto che fosse fin dal principio un accordo sbagliato. “Se tu hai un pessimo accordo, non devi rispettarlo, specialmente se vedi che l’Iran sta conquistando un paese dopo l’altro”. L’Iran deal è da sempre stato considerato da Israele come fumo negli occhi, in quanto, oltre a non aver convinto Teheran a cambiare rotta per quanto concerne il suo impegno militare in Medio Oriente, non ha offerto una soluzione definitiva al problema delle ambizioni nucleari degli ayatollah.
“Credo che l’accordo con l’Iran”, ha spiegato il premier israeliano, “non abbia ottenuto” l’obiettivo della denuclearizzazione. Al contrario, “l’accordo ha dato all’Iran una tremenda bonanza in denaro, una tremenda macchina da soldi” che gli permette di finanziare le varie avventure militari all’estero. “Vogliono portare 80 mila combattenti sciiti in Siria, non solo per attaccare Israele, ma anche per convertire i sunniti allo sciismo”.
Come aveva spiegato il giorno prima alla cancelliera Merkel, la persuasione di Israele è che l’Iran stia conducendo una “guerra religiosa in Siria”. La presenza in Siria dei Guardiani della Rivoluzione e dei miliziani sciiti che l’Iran ha reclutato per combattere in quel paese sta acutizzando il conflitto, si dice convinto Netanyahu, e potrebbe quindi provocare una nuova ondata di profughi in Europa – argomento, quest’ultimo, su cui le cancellerie del Vecchio Continente dovrebbero drizzare le orecchie. La conclusione di Netanyahu è netta: “l’Iran deve lasciare la Siria”, sono le parole scandite da Netanyahu in Germania. “Tutta la Siria”.
Un concetto che il premier ha voluto ribadire anche al suo ospite francese. “La cosa più importante è che l’Iran lasci la Siria. (…) Dobbiamo impedire all’Iran di trasferire il suo esercito e le sue armi sofisticati in Siria contro Israele, per sradicare Israele”.
La presenza iraniana in Siria è un problema che Israele sta sollevando in tutte le sedi e con tutti gli interlocutori. Il timore di Gerusalemme è che la Siria possa diventare la retrovia ben munita di un imminente conflitto tra Iran e Israele, che sono nemici giurati. Per porre in rilievo questo fatto, Netanyahu ha citato il tweet lanciato lunedì da Khamenei, nel quale descriveva Israele come “un tumore maligno nella regione dell’Asia occidentale che deve essere rimosso e sradicato: è possibile e accadrà”. “È straordinario”, ha replicato il premier israeliano sempre su Twitter, “che nel 21mo secolo, qualcuno parli di distruggere Israele. Significa distruggere altri sei milioni di ebrei. Questo è ciò che abbiamo di fronte”.
Dall’incontro tra Macron e Netanyahu è dunque apparso nitidamente il solco che divide l’Europa dallo Stato Ebraico e dagli Stati Uniti. Con la prima che intende salvare il Jcpoa e tutto ciò che ne consegue, inclusi i lucrosi affari delle aziende del Vecchio Continente nella Repubblica Islamica. E i secondi che vedono nell’Iran un nemico irriducibile che mira a fabbricarsi la bomba e a occupare militarmente mezzo Medio Oriente.
La parola ora passa a Theresa May, che riceverà oggi Netanyahu a Londra. Dove il premier israeliano, si può stare certi, reitererà le sue richieste mentre la sua collega britannica cercherà di destreggiarsi tra la volontà di tutelare gli amici israeliani e il desiderio di non destabilizzare ulteriormente il Medio Oriente. Impresa difficile, nell’era di Donald Trump.