Le parole contano. Le parole pesano, perché evocano, riassumono, talvolta semplificano. Anche troppo. Non saremo mai fra quelli che mettono con leggerezza all’indice Matteo Salvini e il suo approccio alla politica, con frettolosi richiami al “fascismo”. Un’altra parola abusata, agitata come un manganello morale, infine banalizzata. E non dovremmo mai banalizzare il ricordo di ciò che evoca.
Eppure, proprio perché abbiamo un profondo rispetto delle parole e di chi si assuma la responsabilità di amministrare la cosa pubblica, non possiamo che restare a bocca aperta davanti alla nonchalance con cui si è parlato di “censimento dei rom”, dunque di una specifica parte di cittadini e non. Come ci era capitato pochi giorni prima, davanti all’esultanza per “l’asse” fra Italia e Germania, la parola scelta per sottolineare una sintonia Roma-Berlino sulla questione migranti, ancora tutta da dimostrare nei fatti, peraltro.
I distinguo e le precisazioni sono scontati, se non altro per convenienza politica, davanti all’insorgere dei primi fastidi pentastellati. La sostanza, però, resta e il danno è ormai fatto. La nostra opinione pubblica è già sufficientemente eccitata, in questo passaggio storico, senza che si faccia il solletico ad antipatie (se non odi) mai sopiti. Associare “censimento” a “rom” è un errore così grossolano, da scagionare paradossalmente Salvini dall’accusa di aver ‘cercato’ l’incidente. Troppo facile, troppo ovvio. Esclusa l’intenzione, resta la conseguenza “colposa”. Per quest’ultima, basta farsi un giro in rete: si è scoperchiato il pentolone dell’orrore. Dietro la classica formula “premesso che non sono razzista”, si trova di tutto. Dal banale perché no, a chi esalta la fine della pacchia (altra parola di questi giorni buttata un po’ a caso, su un diverso tema di incredibile delicatezza), a chi percepisce che finalmente si possono regolare antichi conti, con questi vicini di casa poco raccomandabili. Per arrivare a chi (finalmente?!) si sente libero di invocare direttamente i protagonisti delle peggiori pagine della storia umana. Ripeto, basta un giro in rete ed è un pessimo spettacolo.
È colpa di Salvini, allora? No, il sentimento profondo di tanti italiani è il frutto di politiche miopi e di un inesausto, imbecille derby fra buonisti e cattivisti. A voler essere oggettivi e se vogliamo per forza dei responsabili, sono tanti e schierati sui entrambi questi fronti, complici nell’aver creato un’Italia ingrugnita, ripiegata su se stessa, alla caccia di un colpevole. Di un capro espiatorio.
Allora, le parole pesano il doppio e vanno usate con cura, in Twitter, in un live Facebook, come davanti a un più tradizionale microfono radiofonico. Concordo pienamente con Roberto Arditti, quando dice e scrive che Matteo Salvini è lo straordinario interprete di un modo di fare politica in totale sintonia con il proprio elettorato. Anche nel lessico, nella scelta delle parole, nella capacità di superare in un balzo l’anticume della politica parlata. Capace di spiazzare avversari (e alleati…), imponendo un’agenda sempre nuova. Eppure, senza invocare Arnaldo Forlani, un richiamo alla cura delle parole credo sia fondamentale. Oggi, più che mai. La sovraeccitazione di un’opinione pubblica ribollente può sfuggire di mano a chiunque, anche al politico più abile e spregiudicato oggi su piazza. È nel momento del trionfo, che i romani piazzavano il più umile fra gli umili – uno schiavo – alle spalle del generale vincitore. Gli ricordava la sua caducità e ancor di più della sua fortuna. Lo faceva con parole semplici e dirette.
Oggi, nel momento del trionfo politico, quando la sua ombra ha avvolto sia Di Maio sia Conte, Matteo Salvini farebbe bene a pesare ogni singola parola. È sufficientemente abile, per continuare a dare le carte, senza farsi scappare l’animale più imprevedibile che esista, la massa.