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Volete capire Trump? Guardate Game of Thrones. Parla il prof. Russell Mead

Di Francesco Bechis e Stefano Cabras

Storico, politologo, critico letterario. Editorialista di Foreign Affairs, del Wall Street Journal e del New Yorker. Professore al prestigioso Bard College e distinguished fellow dell’Hudson Institute. Da sempre democratico convinto, ma i suoi libri sono letti con passione, suo malgrado, da Steve Bannon, lo stratega populista per antonomasia che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca. Walter Russell Mead è uno di quei pensatori troppo grandi da poter essere etichettati. Chiunque abbia voglia e pazienza di addentrarsi nei meandri della storia degli Stati Uniti non può non imbattersi nella sua monumentale monografia: “Il serpente e la colomba”. Quando si è davanti a cambiamenti storici, Trump, il G7 in Canada, il ritiro degli americani dall’accordo sul nucleare iraniano, e soprattutto il summit di Singapore con Kim Jong-un, la voce di uno storico, ancor più di esperti e politologi, è la più adatta a chiarire le idee. Per questo l’Aspen Institute di Roma ha scelto lui come ospite d’onore del dibattito “Trump in action” tenutosi giovedì nello splendido palazzo che affaccia su piazza Navona. Formiche.net ha intervistato Russell Mead a margine dell’incontro per chiedergli se davvero l’America First sta funzionando. Una cosa è certa: Trump ha dimostrato al mondo con sufficiente chiarezza di voler essere preso sul serio.

Professore il summit di Singapore è l’anticamera di un accordo per la denuclearizzazione della Corea del Nord?

Con Trump i negoziati iniziano solo quando viene firmato il contratto. Non credo che Kim sia disposto a mettere da parte le sue armi nucleari. Se fossi al suo posto non ne sarei persuaso. Il vero oggetto del futuro accordo non saranno le armi nucleari nordcoreane. Dopotutto Pyongyang ha un arsenale nucleare da diversi anni e nessuno in Asia si è mai fatto troppi problemi. Il rischio da scongiurare è che Kim sia in grado di mettere una testata nucleare su un missile balistico in grado di colpire gli Stati Uniti. Un lancio nordcoreano contro Tokyo o Seul darebbe inizio a una guerra nucleare che nessuno vuole, a cominciare dalla Cina.

Davvero la Cina è disposta ad accettare lo status quo?

Meglio lo status quo di un’escalation nucleare. I cinesi faranno di tutto pur di evitare che i giapponesi dispongano di un’arma atomica. Un’eventualità tutt’altro che remota. Se i giapponesi non si sentissero protetti dagli americani si munirebbero subito di un’arma nucleare. Hanno il know how, il plutonio nei reattori e il personale scientifico per farlo, è questione di pochi mesi. Pechino lo sa perfettamente e per questo non si oppone alla presenza degli americani a Seul. Se gli Stati Uniti lasciassero la regione le chances di un’escalation aumenterebbero e inizierebbe la corsa all’atomica. Scoprire che perfino Taiwan ha un’arma nucleare sarebbe un’umiliazione per i cinesi.

Cosa pensa invece della performance di Trump al G7 in Canada? È il punto più basso toccato dalle relazioni transatlantiche o si può ancora recuperare?

È il punto più basso nelle relazioni transatlantiche durante l’era Trump. Non dimentichiamo che il Tycoon è solo un pezzo della storia politica e del pensiero americano, gli Stati Uniti sono un Paese molto più complesso. Sarebbe folle pensare che chi arriverà alla Casa Bianca in futuro sarà necessariamente come Trump e non come i suoi predecessori.

Ci spieghi meglio.

Trump unisce nella sua persona due elementi che possono essere molto nocivi per l’Alleanza Atlantica. Il primo è che non ritiene particolarmente importante i Paesi europei e le istituzioni multilaterali di cui fanno parte. Quando si siede a un tavolo con il presidente cinese Xi Jinping è consapevole di parlare con una persona in grado di prendere decisioni, alla guida di un Paese potente, che merita attenzione. Lo stesso vale per Vladimir Putin. La musica cambia quando si siede al G7, dove tutti dicono il contrario di tutto e nessuno può decidere da solo. In quella sede è più difficile trovare un accordo: l’Italia appoggia la linea Trump su Putin, la Germania si sente minacciata dalla Russia, il Giappone dalla Cina.

Perché crede che Trump abbia una così bassa considerazione del Vecchio continente?

Non si tratta solo dell’Europa, ma dell’Occidente nella sua interezza. Trump non crede che in Occidente esista un’entità politica degna di attenzione al di fuori degli Stati Uniti. Poco importa che l’Europa scelga di collaborare con Washington o di mettergli i bastoni fra le ruote. Non è il primo presidente americano a pensarlo. Ma almeno chi c’era prima di lui faceva finta di dare importanza agli europei, un po’come l’imperatore Augusto quando elogiava il Senato e poi faceva di testa sua. Ecco, Trump mi sembra più Caligola, che ha nominato senatore un suo cavallo.

Di ritorno dal Canada Trump ha elogiato su twitter il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte. Ci sono i presupposti per un rapporto privilegiato con Roma?

Credo che la pensino allo stesso modo sull’immigrazione, che è una questione politica scottante sia per l’amministrazione Trump che per il governo Conte. Il loro è un approccio legale, sono convinti che l’unico modo per affrontare l’emergenza sia un richiamo alle norme vigenti e non ai diritti umani. Trump è felice di questa convergenza di interessi. Non vede l’ora di dire ai democratici: “Vedete che non sono l’unico? Anche gli italiani non vogliono più l’immigrazione clandestina”.

Quale può essere un altro punto in comune con il governo gialloverde?

In fondo c’è sintonia sui rapporti con la Russia. L’amministrazione Trump e il nuovo governo italiano sono convinti che si debba riaprire un dialogo con Mosca. Trump in particolare trova inutile cercare di trasformare la Russia in una democrazia, non a torto. Ci abbiamo provato negli anni ’90. Il cambio di regime ci ha regalato otto anni di Boris Yeltsin e per finire Vladimir Putin.

L’Italia può scavalcare la Germania nelle gerarchie europee di Washington?

Mi sembra che questa sia la direzione. La Germania ha un approccio alla politica internazionale estremamente rigido e formale, tutto incentrato sulla corretta applicazione delle norme delle Nazioni Unite e dell’Ue, a prescindere dalle difficoltà contingenti. L’Italia invece storicamente è un Paese che cerca di sfuggire a queste dinamiche, di instaurare un dialogo con i partners e questo piace molto a Trump.

Cosa pensa Trump delle frizioni fra Italia e Germania emerse nelle ultime settimane?

Trump considera la Germania l’esatto opposto di un alleato ideale. I tedeschi chiedono agli americani di spendere per la loro Difesa molto più di quanto sarebbero tenuti a fare loro. Ma quando Washington chiede a Berlino sostegno sul dossier iraniano riceve picche. Fanno la voce grossa con la Russia di Putin, ma quando si parla di NordStream non c’è nessun problema. Chiedono ai Paesi membri dell’Ue di tagliare la spesa, dimenticando che se al posto dell’euro ci fosse ancora il marco il surplus tedesco non esisterebbe.

Come può la Germania riconquistare la fiducia di Washington?

Trump ha chiarito i termini: spendere il 2% del Pil nella Nato e ridurre il deficit commerciale investendo di più negli Stati Uniti. Qualcosa si è già mosso nei mesi scorsi. Esattamente come il Giappone negli anni ’80 anche la Germania ha iniziato a investire di più oltreoceano. La riforma fiscale di Trump, la deregolamentazione e i costi relativamente bassi dell’energia aiutano ad attrarre capitali. In fin dei conti non credo che Trump voglia innescare una guerra commerciale con Berlino. Una volta che potrà annunciare in pompa magna 10.000 posti di lavoro e la costruzione di tre nuovi stabilimenti negli Stati Uniti dichiarerà vittoria.

I primi mesi del 2018 hanno messo alla prova l’America First di Trump: l’accordo per il nucleare iraniano, la guerra di dazi e per finire il G7. A suo parere sta funzionando?

Sicuramente sta funzionando negli States. I suoi critici lo descrivono come un uomo pigro e ignorante, che passa i suoi giorni su un campo da golf, ma la verità è che ha dimostrato di saper dominare abilmente il governo americano. I risultati sono sorprendenti: una buona fetta della burocrazia lo avversa, e tuttavia la filosofia di Trump ha penetrato i rami dell’esecutivo, dal Dipartimento di Stato fino al Commercio. A volte sembra che Trump voglia costringere queste istituzioni a soddisfare i suoi capricci.

E sul fronte della politica estera America First sta vincendo?

Trump ha un concetto di vittoria molto diverso dal nostro. I secchioni della politologia come me sono convinti che un politico debba risolvere i problemi che ha di fronte partendo dal più difficile per poi affrontare quelli meno impegnativi. Trump invece è un produttore di reality show, sa bene che quando l’audience cala le cose si fanno noiose. Se il primo episodio di Game of Thrones svelasse chi diventerà re nessuno guarderebbe il secondo. Chi produce uno show televisivo deve tenere i telespettatori incollati alla poltrona. Perché lo show abbia successo l’ultimo episodio di una serie deve essere il più spettacolare di tutti. Questo è Trump. Alla fine di ogni puntata rimane una questione aperta. Lo arresteranno per collusione con i russi? Ci sarà una guerra nucleare con la Corea del Nord? Israele bombarderà l’Iran? Non lo sappiamo, ma intanto tutto il mondo parla di Donald Trump e nessuno nella storia ha mai attirato tanta attenzione. Trump è felice di questo, la considera una manifestazione del suo potere. Purtroppo però la storia è un po’più complessa di un reality show.

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