Costruire chiese in tutta l’Africa. È quanto stanno facendo le imprese cinesi, godendo della forza delle proprie economie di scala e dei vantaggi logistici che gli permettono di vincere contratti di appalto internazionale in molti paesi africani, mentre all’interno dei propri confini vengono demoliti, uno dietro l’altro, santuari o cappelle con la croce cristiana.
Lo scenario viene riportato dal quotidiano on-line The Diplomat, in cui si spiega, per di più, che la vicenda non riguarda solo la semplice costruzioni di edifici di culto cristiani, ma che si tratterebbe anche, letteralmente, di svolgere un “ruolo vitale” nel diffondere la buona notizia in Africa. Proprio così: l’atea Cina che diffonde il Vangelo nel continente nero, nonostante la forte avversione al proprio interno nei confronti della libertà di culto e di ogni proselitismo religioso. Un fatto che viene avvalorato anche da un altro dato numerico, quello in cui si mostra che un quarto delle Bibbie dell’intero pianeta, oggi, vengono stampate in Cina. Nel 2008, ad esempio, la più grande fabbrica di stampa biblica del mondo ha aperto a Nanchino, nella Cina Orientale, città storicamente famosa per essere stata a lungo tempo capitale della Cina.
Bibbie che vengono poi smistate, in una quota massiccia, in Africa. Per fare solo un altro esempio, tre quarti delle Bibbie che oggi vengono lette in un Paese come il Kenya sono di produzione cinese. Testi che di certo non vengono stampati con finalità religiosa, ma solamente in virtù del perseguimento del modello economico cinese centrato sull’esportazione massiccia di prodotti a basso costo, ma che però stanno altresì finendo, per una paradossale eterogenesi dei fini, sempre più nelle mani di quei cinesi che una volta giunti oltremare, in Africa o in Occidente, decidono di abbracciare la religione cristiana e di dedicarsi alla pratica e alla diffusione degli insegnamenti di Gesù. Dinamica stimolata, ad esempio, dai numerosi gruppi di studio bilingue promossi nelle chiese africane.
Il sito americano porta infatti alcuni esempi di organizzazioni cinesi che lavorano in Africa, tra cui la Southern African Chinese Outreach Network e la Overseas Missionary Fellowship (Omf). “Preghiamo che molti sudafricani continuino ad imparare la lingua cinese e che si impegnino nel condividere l’amore di Cristo con i cinesi”, afferma un membro della Omf al giornalista Jeremy Luedi, che spiega anche come con la collaborazione tra anglo-africani e chiese cinesi è possibile avvicinarsi sempre più alla visione da loro promossa di “un movimento di preghiera per la diaspora cinese, per i pastori e i missionari dalla Cina”, per “supportare il ritorno dei cristiani cinesi in Cina”. Che sono poi gli intenti che hanno spinto l’organizzazione, oggi, ad operare in Sud-Africa, Zimbabwe o Kenya.
Sono poi le stesse chiese africane ad attirare maggiormente i cristiani cinesi, più che le chiese cinesi stabilitesi nelle regioni, messe in piedi da missionari provenienti da Hong Kong o dal Taiwan ma che tuttavia vengono viste con maggiore sospetto dagli inviati del governo cinese, che temono il nascere di legami, oltre che religiosi, anche di tipo separatista (nel caso di Taiwan) o sovversivo. Non a caso, a Pechino, gli organi di informazione controllati dal governo bollano normalmente come “stranieri” i missionari cinesi all’estero. Che a loro volta, però, cercano di reclutare leader religiosi dalla stessa Cina, con l’obiettivo di riuscire a mostrare, all’interno dei confini della Cina e di fronte al Ministero degli Esteri, i successi del loro operato su terra africana.
Le stime, non sempre chiare, parlano di circa un migliaio di missionari in totale e un numero di chiese che entro la fine del prossimo decennio vorrebbe raggiungere quota ventimila. Numeri quindi non esorbitanti ma significativi, che si sommerebbero poi all’importante presenza economica cinese in Africa, che in questo caso potrebbe finire per trarre ulteriore forza anche all’interno di un contesto di missionarietà come quella proposta dalla religione cristiana. “Un lavoro missionario in stile cinese”, lo descrive infatti il pastore della Wanbang Missionary Church a Shanghai, Cui Qian. “Siamo sopravvissuti alla Rivoluzione Culturale, quindi abbiamo l’esperienza”.
Qian, però, racconta anche che i venti missionari che appartengono alla sua chiesa “stanno usando la loro esperienza nel crogiolo della repressione religiosa vissuta in patria per causare il mal di testa al governo comunista all’estero”. I missionari infatti perlopiù provengono dalle chiese sotterranee in Cina, e questo causa una doppia preoccupazione per il Partito Comunista Cinese. “La Cina si è fatta un nome come esportatrice di capitali diventando una fonte di investimenti stranieri per le nazioni che operano nella Nuova via della seta, ma la Cina è anche destinata a diventare il più grande esportatore al mondo di fede cristiana”, affermava un anno fa un pastore taiwanese, durante una convention cristiana ad Hong Kong, racconta ancora il giornalista. “La connessione tra la diffusione della Nuova via della seta e la proliferazione dei missionari cinesi è sotto denuncia, ma continuerà a svilupparsi negli anni a venire”.
La tesi dei missionari è infatti che, costringendo i propri cittadini a nascondere la loro fede per lunghi anni, il governo cinese ha finito per addestrarli ad agire in contesto di oscurità e di mancanza di informazioni, creando potenziali attori di proselitismo. Questi, poi, potranno infiltrarsi senza grandi problemi tra gli attori economici della Nuova via della seta, con l’obiettivo di creare una rete di cristiani cinesi più forte e strutturata, sfruttando anche la mancanza di consapevolezza degli operatori cinesi su questo tema. “Il governo cinese deve ora preoccuparsi dello stesso tipo di sotterfugi che avvenivano con la Guerra Fredda, solo che, al posto dei comunisti nascosti in mezzo a loro, l’onnipresente spauracchio è il cristiano nascosto”, aggiunge infatti Luedi. “Questa linea di pensiero non è nuova”, conclude. “Tale diffusione è vista come un mezzo per accelerare la seconda venuta di Gesù Cristo”.