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Perché il mercato del lavoro va ripensato al di là del decreto del governo

In premessa è d’obbligo, dati comparativi alla mano, commentare e contraddire l’affermazione del governo per cui il numero dei contratti a tempo determinato o temporanei in Italia è molto superiore alla media europea: secondo l’agenzia europea di statistica e i dati Eurostat – dunque due autorevoli fonti – il modo semplice per capire se davvero il lavoro a tempo determinato è in aumento o meno consiste nel contare quanto pesa la fetta di occupati con questo genere di contratti sul totale dei dipendenti. È più utile confrontare questo numero con il resto d’Europa, per capire quanto è frequente in Italia il ricorso al lavoro a termine e se siamo o meno un’eccezione rispetto agli altri Paesi avanzati. Così si rileva che il numero complessivo di contratti a termine sottoscritto in Italia è, più o meno, in linea con quello della media dell’area euro. Secondo l’Istat, in Italia ci sono 22 milioni e 874 mila lavoratori di questi, sono dipendenti 17 milioni e 640mila, divisi tra 14 milioni e 878mila tempi indeterminati e 2 milioni 762mila tempi determinati. Gli indipendenti sono 5 milioni e 234mila. Secondo l’ultima rilevazione Eurostat disponibile, i contratti a tempo determinato in Italia nella fascia 15-64 anni erano il 12,1% del totale, una quota pari a quella della media europea a 28 Stati ma inferiore all’area euro (13,7%). La Francia è al 14,9%, la Germania 11,7%. Spagna e Portogallo sono rispettivamente al 22,4% e al 19%.

Il decreto è  sbagliato fondamentalmente perché non affronta il tema di come preparare i lavoratori a un mercato dove è richiesto di transitare spesso da un mestiere all’altro aggiornando le proprie competenze, e si concentra sui contratti a tempo determinato oltre i 12 mesi, che sono numericamente esigui rispetto a quelli più brevi e dove  il comportamento opportunistico delle aziende è oggettivamente meno evidente. Il rischio vero è quello di contribuire ad un rafforzamento del turnover tra lavoratori a termine. Infatti considerata la causale come un elemento di rischio la volontà di evitarla si traduce facilmente nell’estinzione del rapporto di lavoro e con l’assunzione di un nuovo lavoratore che, complice la disoccupazione che sfiora ancora l’11%, non è difficilissimo da trovare. Questo si aggrava ancora di più per i lavoratori con un contratto a termine in corso, stipulato quindi senza causale, e per i quali, in assenza di un regime transitorio o di incentivi importanti per la conversione a rapporto a tempo indeterminato, si prospetta quasi con certezza la fine del rapporto onde evitare il grande rischio di dover apporre una causale che porterebbe con sé, in questo caso più che in altri, un elevatissimo rischio di contenzioso.

Capovolgiamo  poi per una analisi  l’articolato del decreto in oggetto cominciando dall’art 14  che recita testualmente e senza nessun “Imbroglio” ART 14 comma 2. Agli oneri derivanti dagli articoli 1 e 3, valutati in 17,2 milioni di euro per l’anno 2018, in 136,2 milioni di euro per l’anno-2019, in 67,10 milioni di euro per l’anno 2020, in 67,80 milioni di euro per l’anno 2021, in 68,5 milioni di euro per l’anno 2022, in 69,2 milioni di euro per l’anno 2023, in 69,8 milioni di euro per l’anno 2024, in 70,5 milioni di euro per l’anno 2025, in 71,2 milioni-di euro per l’anno 2026,…… omissis “…… Significa che c’è una spesa che va coperta perché evidentemente la riforma del contratto a termine riduce le entrate infatti  essendoci meno occupazione c’è meno retribuzione, meno tasse ed entrate fiscali e contributiva. Dunque la relazione tecnica  accompagna obbligatoriamente ogni legge ed è responsabilità del Ministero che la propone ed è firmata dalla Ragioneria generale dello Stato che si avvale dei dati inps.

Nel merito. Queste norme  nel momento in cui entreranno in vigore, andranno a insistere sulla disciplina del contratto a termine  e della somministrazione di lavoro, intervenendo così su di una serie di istituti tradizionalmente oggetto di negoziazione nell’ambito della contrattazione collettiva di ogni livello,  e che porterà  inevitabilmente vari profili di complessità nel coordinamento tra fonte legale e fonte contrattuale. Sono infatti le relazioni industriali che hanno  gli strumenti in grado di regolare, al di là di quanto possa fare la legge dello Stato, i rapporti tra lavoratori ed imprese, tanto a livello nazionale, attraverso la fissazione di trattamenti economici e normativi minimi, quanto a livello aziendale con la declinazione di regole per la composizione degli interessi specifici sino alle  realtà produttive di prossimità. La difficoltà che si presenterà  con il  decreto in oggetto, sarà non  come la contrattazione collettiva possa derogare alla legislazione, ma  come lo spazio di deroga già preso dalle parti sociali possa essere poi compresso da una legislazione successiva che modifichi gli stessi istituti. In (buona) problematica sostanza  ci si dovrà misurare sull’applicazione  di questa nuova disciplina sugli  spazi lasciati aperti dalla contrattazione collettiva, quegli spazi in cui le parti sociali hanno scelto di non regolare in maniera particolare una materia (come nel caso della somministrazione) o di de-regolare degli istituti nel rispetto di una “liberalizzazione” normativa (come nel caso delle causali nel contratto a termine) o di richiamare generalmente alla disciplina vigente (senza citarne gli estremi). Laddove invece la contrattazione collettiva ha utilizzato la propria voce per regolare istituti che verranno poi modificati dalla novella legislativa, l’analisi dell’impatto del decreto  sulla contrattazione collettiva fa emergere una concreta  difficoltà sulla reale portata della novella legislativa, con particolare riguardo all’efficacia temporale di essa, in ragione di vincoli molto diversificati di natura contrattuale e collettiva e dalla mancanza di una disciplina transitoria, che porterà  a sicura incertezza nella corretta applicazione del decreto e a contenziosi inevitabili.

Il decreto ha l’ambizione di combattere la precarietà ma la identifica unicamente nel lavoro a termine e nel lavoro in somministrazione. Vengono così dimenticate numerose altre figure, come  i tirocinanti che sono in crescita e che oggi risultano meno tutelati rispetto a tanti occupati a termine,  anche  per la mancanza di un contratto di lavoro in nome di un percorso formativo che spesso non esiste e soprattutto vero è che con questo decreto si massacra  lo staff leasing e la somministrazione a tempo indeterminato in una accelerazione errata verso l’annunciata riforma dei centri per l’impiego pubblici, che dovrebbe condurre al reddito di cittadinanza. Ma sappiamo bene che incombono tempistiche   lunghissime  per reperire risorse per realizzare una riforma di questo genere  immaginata  su una riforma delle politiche del lavoro da costruirsi sulle fondamenta dei centri per l’impiego e  ciò alimenterà  così il dualismo tra sistema pubblico e privato. Questo decreto  silura un mercato del lavoro flessibile e soprattutto internazionale incardinato  su una accelerata innovazione tecnologica a cui siamo impreparati: un mercato del lavoro delle persone e delle aziende  che va ripensato invece e subito attivando  politiche attive,  rinnovando i sistemi di welfare, politiche per favorire la formazione e la riqualificazione dei lavoratori e politiche dell’istruzione.

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