Il cosiddetto decreto Dignità è un indiscutibile punto segnato da Luigi Di Maio, nell’eterno derby con Matteo Salvini. Ha rimesso il vicepremier pentastellato al centro del dibattito, dopo settimane dominate totalmente dal leader della Lega. Oltretutto, su un piano molto caro al Movimento, il lavoro e – appunto – la ‘dignità’ dei lavoratori. Politicamente parlando, insomma, l’operazione è chiarissima: riportare la barra dell’azione di Governo verso il sentiment grillino, placando al contempo mal di pancia sempre più difficili da ignorare. Non c’è, infatti, solo il presidente della Camera, Fico, da tenere d’occhio.
Archiviato l’aspetto politico, è lecito chiedersi cosa si trovi nel decreto. A parte le roboanti dichiarazioni del ministro del Lavoro, ‘è la fine del precariato’, richiameremmo l’attenzione sul messaggio di fondo. Quasi una filosofia, riaffermata con il provvedimento varato ieri (che ancora non conosciamo nei dettagli e potrebbe cambiare molto, in sede di conversione in aula). Il Movimento 5 Stelle sembra urlare ai quattro venti, ma soprattutto ai giovani, che con loro – solo con loro, si badi – tornerà centrale il lavoro stabile, a tempo indeterminato. Obiettivo dichiarato, da additare a unico sbocco possibile, per una reale dignità dell’impiego.
Messo così, un balzo nel XX secolo, un chiudere gli occhi davanti alla realtà che ci circonda. Di più, ai ragazzi stiamo dicendo che potranno trovare reale soddisfazione e realizzazione lavorativa, solo in una tipologia di contratto. Non nel lavoro in sé, nella sfida quotidiana ai propri limiti e, perché no, nel guadagnare progressivamente di più.
E il merito, così propagandato come mantra grillino, da contrapporre ai magheggi della casta? Lo stiamo subordinando alla stabilità contrattuale, relegandolo di fatto in un angolo. In un sistema più bloccato, è lecito il dubbio che faccia più fatica ad emergere. Sommessamente facciamo notare che veniamo da qualche decennio di rigidità e un po’ di esperienza in materia l’Italia l’ha maturata…
L’obiezione, concludendo, potrebbe andare oltre l’abusato ‘il lavoro non si crea per decreto’, mettendo in dubbio una visione del lavoro del XXI secolo dominata dalla nostalgia. Delle sicurezze di una volta, del 9.00-17.00, delle domeniche con i negozi chiusi, del contratto per una vita. Ci vorrebbe la forza di contrapporre una visione fatta di sfide toste, ma esaltanti, realizzazione personale, mondi nuovi da saggiare. Tutto molto più difficile, ma se continueremo ad additare il passato come miglior futuro possibile ai nostri ragazzi, potremmo trovarci senza presente.