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La catastrofe umanitaria in Siria prosegue. E Trump non ferma Putin

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Potrebbero essere oltre duecentomila i civili messi in fuga dai bombardamenti russi e dall’avanzata delle truppe governative nella Siria sud-occidentale, una delle ultime ridotte dei ribelli che il regime di Damasco mira a riconquistare in barba agli accordi di de-escalation presi da Donald Trump e Vladimir Putin l’anno scorso.

Per il presidente siriano Bashar al-Assad, riannettere il governatorato di Deraa rappresenta un punto di orgoglio, considerato che è qui che, nella primavera del 2011, è iniziata la sollevazione contro di lui ed il sistema di potere baathista ed alawita. Ma è una scommessa rischiosa, visto che le operazioni militari si svolgono a pochi chilometri dai confini di Israele. Lo Stato ebraico osserva con attenzione gli sviluppi, pronto a intervenire in caso gli alleati iraniani e libanesi di Assad fossero schierati sulla linea del fronte. Un’eventualità niente affatto remota, considerati i precedenti.

Per Israele, la presenza di questo nemico irriducibile alle sue porte rappresenta una linea rossa da non valicare, e non è escluso che Putin abbia offerto garanzie a Gerusalemme a tal riguardo. È anche per questo motivo, d’altronde, che il presidente russo e quello americano avevano concordato al G20 di Amburgo del luglio 2017 (patto confermato al summit Apec di Danang del successivo novembre) un cessate il fuoco nella Siria sud-occidentale. Troppo elevato il rischio di un allargamento del conflitto ad Israele, che ha già dimostrato con i fatti di non essere disposta a tollerare che i Guardiani della Rivoluzione e i miliziani di Hezbollah si avvicinino troppo al suo suolo.

Iniziata il 19 giugno, l’offensiva russo-siriana ha già centrato i suoi primi obiettivi. Sopraffatti dalle preponderanti forze attaccanti, dal loro uso spregiudicato dell’aviazione e da tattiche brutali come i barili bomba sganciati dagli elicotteri, almeno cinque città del governatorato di Deraa hanno alzato bandiera bianca e accettato gli accordi di “riconciliazione” proposti dal governo con la mediazione di ufficiali russi. La tv di Stato ha mostrato le immagini dei residenti che inneggiavano ad Assad ed issavano il vessillo della Siria baathista. Anche la propaganda, d’altronde, ha un suo ruolo in questa guerra che mai come oggi sembra essere prossima ad una risoluzione definitiva a favore di Damasco.

Ma non tutta la resistenza ha accettato di venire a patti col regime. Uno dei portavoce delle forze di opposizione, Ibrahim Jabawi, ha reso noto di aver rigettato le umilianti condizioni poste da Mosca nelle trattative che hanno avuto luogo in una zona a cavallo delle province di Deraa e Sweida. “Le condizioni russe”, ha dichiarato Jabawi all’AP, “sono che i ribelli cedano tutto e in cambio tutte le aree passino sotto il controllo dI Bashar Assad. (…) Tutte le persone che hanno portato le armi saranno processate”. Un prezzo troppo alto, dunque anche a fronte del costo, carissimo, di un rifiuto. I precedenti di Aleppo e della Ghouta orientale, assediate e rase al suolo tra sofferenze indicibili della popolazione, rivelano chiaramente quale destino sarà riservato a chi osa opporsi alla volontà del rais.

Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, le vittime civili dell’offensiva hanno frattanto raggiunto quota 116. Una cifra che lievita di ora in ora, considerando anche la condizione drammatica in cui versa chi ha scelto di sfuggire ai bombardamenti e di mettersi in fuga in direzione sud, verso la Giordania, e verso est, dove sorgono le alture del Golan controllate da Israele. Una fuga che si interrompe bruscamente ai confini con i due paesi, sigillati per volontà dei governi di Amman e Gerusalemme. Le Nazioni Unite stimano che le persone intrappolate tra l’incudine delle bombe e il martello dei confini chiusi siano 160 mila, ma potrebbe essere un calcolo in difetto. La Union of Medical Care and Relief Organizations, attiva nel territorio di Deraa, alza infatti il computo a 217 mila.

Al valico con la Giordania si assiste a scene inenarrabili, con migliaia di persone accalcate di fronte ai carri armati e ai soldati che sbarrano l’accesso. La scorsa settimana sarebbero morti cinque bambini a causa degli scorpioni che infestano la zona nonché dell’assenza di personale medico.

A seguito delle pressioni degli ong e dell’Onu, Amman ha cominciato nel weekend a inviare aiuti umanitari, ma continua a opporsi all’ingresso dei profughi. Con un milione e trecentomila siriani già ospitati nel regno, di cui oltre 650 mila rifugiati con status riconosciuto, la Giordania non può permettersi di allargare le maglie dell’accoglienza. Lo riconoscono persino gli operatori umanitari. “Esito, in un certo senso”, ha dichiarato sconsolato Jan Egeland, consigliere umanitario delle Nazioni Unite, “a chiedere ad un paese piccolo e povero, che ha già più di un milione di siriani sul suo suolo, a prenderne di più. Ma devo farlo”, ha aggiunto Egeland, “perché si tratta di donne, bambini, civili, che non hanno altro posto in cui fuggire”.

“La situazione è davvero spaventosa”, testimonia il portavoce del Consiglio dei Rifugiati di Norvegia, Karl Schembri, “e sappiamo che ci sono altre persone in arrivo. (…) E non sappiamo quanto si stiano avvicinando a loro i combattimenti”.

Il popolo giordano segue con apprensione le vicende al confine, e mostra di non condividere le scelte prese dal governo. Su Twitter, è diventato virale nel weekend la frase “aprite il confine”. I media giordani hanno mandato in onda le immagini di cittadini giordani che, nella località frontaliera di Ramtha, raccolgono cibo e acqua per i loro cugini siriani.

Ma l’esecutivo non si lascia commuovere, e per bocca del suo ministro degli esteri Ayman Safadi – che venerdì ha incontrato il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres per discutere la situazione al confine – conferma la linea. “Prima di parlare dell’espulsione dei siriani dalla loro terra”, ha scritto sul suo profilo Twitter Safadi, “dobbiamo parlare di come proteggere i siriani laggiù. (…) Dobbiamo parlare di come creare meccanismi internazionali per assicurare protezione e fornire assistenza ai siriani nella loro terra. (…) La Giordania non può permettersi di affrontare da sola le conseguenze della crisi. Questa è responsabilità della comunità internazionale ”.

Gli Stati Uniti, frattanto, stanno alla finestra. Alla vigilia dell’offensiva russo-siriana avevano minacciato “serie ripercussioni”, ma hanno poi spiegato ai ribelli che non riceveranno alcun sostegno militare. La sorte della Siria sud-occidentale sarà comunque al centro del vertice Trump-Putin del 16 luglio ad Helsinki. Che sarà, con tutta probabilità, l’occasione per ratificare il colpo di mano di Assad e del Cremlino. Deraa val bene d’altronde il disgelo delle relazioni russo-americane, obiettivo che The Donald coltiva dai tempi della campagna elettorale e che non è mai uscito dalla sua agenda nonostante lo spettro del Russiagate.


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