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Marchionne e la sinistra: storia di amore e odio

Di Peppino Caldarola
marchionne

C’è un predecessore di Renzi nella vita pubblica italiana ed è Marchionne. L’italo-canadese venne accolto al suo arrivo al vertice della Fiat con molte domande sul suo itinerario professionale. Uomo di finanza che non assomigliava per niente alla tradizione italiana, di poche, anzi pochissime, parole, persino controcorrente per il suo abbigliamento caratterizzato dall’abolizione della giacca e della cravatta a favore del maglioncino. Un italiano che aveva fatto fortuna all’estero dove era stato portato da una famiglia che in questo Paese non riusciva a sopravvivere, ma che soprattutto voleva tentare la fortuna. Niente orologio sopra il polsino, niente cravatte regimental o sgargianti come uno degli ultimi eredi Agnelli, ma quell’anonimato normale che colpisce perché fuori moda. Alla sinistra piacque subito. Sergio Chiamparino più volte l’anno, ha raccontato, si mangiava una pizza con lui a Torino, i sindacati pensavano di aver trovato un gestore dell’impero Agnelli meno scorbutico dei predecessori, la Confindustria un uomo da inglobare nel sistema delle relazioni industriali canonizzate. Insomma Marchionne era pronto per diventare il volto buono del capitalismo nostrano con quella buona dose di retorica dell’italiano che viene da fuori per mettersi al servizio del Paese e anche dei suoi vizi e difetti.

È durata poco questa luna di miele che aveva visto anche il primo Renzi entusiasta e poi polemico con il nuovo amministratore delegato. Il fatto è che Marchionne aveva messo a tema alcune questioni. La prima è che la gestione della Fiat non poteva continuare come nel passato. La grande azienda doveva diventare internazionale per sopravvivere in un mercato in cui contano i grandi numeri, negli stabilimenti la produttività doveva essere il metro di paragone delle relazioni industriali, l’italianità un obiettivo e non una conditio sine qua non. In un batter d’occhio Marchionne rottamò due pachidermi: il sindacato e Confindustria. Al primo disse che avrebbe trattato sulla base di impegni precisi, di una sorte di codice del lavoro, e su un patto produttivo ferreo. Alla seconda disse che non si sentiva rappresentato da un sindacato imprenditoriale che non avesse fatto i conti con le nuove sfide dell’innovazione e delle nuove relazioni industriali. Nacque così il “mostro”. Complici alcune eccessive durezze nel confronto con i sindacati e in particolare con la Fiom e in una stagione in cui il suo confronto con il sistema-Italia consolidato lo portava a chiamarsi fuori visto che doveva fare i conti con Toyota, Volkswagen e altri gruppi ormai leader, Marchionne decise la maniera forte. Scelse la via più facile. Mise al bando la Fiom, conquistò il favore di sindacati più malleabili, dichiarò finita la fase in cui nelle fabbriche si sapeva quali erano i diritti e si dimenticavano i doveri.

D’un colpo un’intera cultura sindacale e industriale veniva rottamata, con la Fiom sospettosissima per il timore che Marchione volesse, come probabilmente voleva, farla fuori, e una Cgil immobile come è da quando Cofferati ne prese la guida. Così Marchionne diventò da uomo simbolo di una sinistra riformista il suo nemico principale, anzi, se non ci fosse stato Berlusconi a occupare tutta la scena emotiva dell’avversione, il vero nemico. L’italo- canadese invece non si fece impressionare. Ruppe con il sindacato di sinistra, uscì dalla Confindustria, cercò in giro per il mondo alleanze finché le trovò a Detroit, complice un altro mito della sinistra, il presidente Obama con il corredo dei sindacati americani. Oggi la situazione si presenta rovesciata. Al Marchionne che lancia il polo Fiat-Chrysler nessuno fa ponti d’oro, ma il silenzio imbarazzato che accompagna il successo nella costruzione di un gruppo internazionale che scala i vertici dell’industria automobilistica mondiale. Nessuno osa più rivolgere critiche esplicite. La realtà è che Marchionne sta delineando una prospettiva produttiva che guarda alla natura profonda del marchio Italia. Sceglie di fare dell’Italia il marchio di lusso dell’automobilismo mondiale, con qualche idea che viene dal passato sulle vetture a medio costo e a piccole dimensioni. Racconta che i suoi tecnici stanno sperimentando in segreto i nuovi modelli, lancia la sfida della collaborazione a un sindacato esausto. Il pallino, in parole povere, l’ha ripreso in mano lui.

L’obiezione che gli viene rivolta riguarda la italianità di un gruppo fondato sull’alleanza con gli americani e destinata, nelle intenzioni, ad allargarsi ad altri partner. È un’obiezione comprensibile, ma per tanti aspetti futile. Il tema da mettere al centro della discussione è che l’industria dell’auto stava morendo e che le scelte di Marchionne lanciano una prospettiva e anche una realistica possibilità di mantenere qui una parte importante della produzione e della progettazione. Renzi oggi dovrebbe forse recuperare quelle sue prime uscite pubbliche in cui valorizzava Marchionne contro una sinistra interna sospettosa, priva di fantasia industriale, timorosa, con qualche buona ragione, di fabbriche senza sindacati. Il renzismo si sta caratterizzando dal punto di vista sindacale per il singolare dialogo con il leader dei metalmeccanici che nel sindaco-segretario ha visto due cose: il sostenitore della nuova legge sulla rappresentanza e il demolitore delle vecchie burocrazie, fra cui quella che la fa da padrona cioè quella della Cgil. Ecco perché, pur in un quadro di conflitto inesorabile, si può aprire un nuovo scenario fra un leader politico riformista, un leader sindacale radical ma non antsistema, almeno nelle sue ultime versioni, e un leader di impresa che ha lo sguardo lungo. Hanno invece perso tutti gli altri: quelli della Costituzione più bella del mondo, quelli del sindacato che chiede ma non prende impegni, quelli che hanno fatto del queta non movere la loro filosofia di vita. Forse l’Italia si sta sbloccando, e non è detto che piaccia a tutti come sta avvenendo, ma gente come Marchionne, Renzi e persino Landini – se non si impauriscono e tornano indietro – possono segnare una nuova stagione per un Paese che non vuole più essere un museo delle cere.

(Articolo pubblicato sul numero 89 della rivista Formiche – febbraio 2014)



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