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Marchionne, la Fiat, e quel link americano che dura da sempre

Marchionne

La Fiat diventa americana, la Fabbrica italiana automobili Torino diventa Fiad, Fabbrica internazionale di automobili di Detroit quotata a Wall Street e domiciliata in Delaware dove si pagano meno tasse. Si compie così un destino che non nasce dal caso. La stessa operazione Chrysler, del resto, non è il mero frutto di audacia e fortuna. Certo il fato ha avuto la sua parte, come in ogni vicenda umana, e Sergio Marchionne l’ha saputo cogliere con l’astuzia della volpe, ma per capire meglio quel che sta accadendo, occorre ricordare la storia. Non si parla d’altro che del rapporto tra Giovanni Agnelli e Henry Ford, a partire dalla famosa visita del 1911 negli impianti di Highland Park dove veniva montata la modello T.

Meno viene ricordato che la Fiat fu sostenuta nel 1926 da un ingente prestito della Banca Morgan e nel 1940, l’anno in cui l’Italia entrò in guerra, gli interessi americani di Agnelli erano estesi fino al petrolio della Standard Oil. Poi c’è Vittorio Valletta che fa il doppio gioco e viene salvato dagli alleati, lui che sostiene l’amico Giuseppe Saragat nella scissione socialista di Palazzo Barberini, favorisce i rapporti con i sindacati americani nel nuovo sindacato socialdemocratico, la Uil, e si legittima come il baluardo contro i comunisti in fabbrica e nel Paese, un solido sostegno economico e politico durante la Guerra fredda. È lo stesso Valletta che propugna il centrosinistra quando John Fitzgerald Kennedy è alla Casa Bianca, e apre Togliattigrad su mandato di Lyndon Johnson. Ancora, troviamo il banchiere Nelson Rockefeller, poi Henry Kissinger come l’ultimo grande amico americano, occhio e orecchio nella capitale del mondo libero. Quando nel 1999 Gianni Agnelli rifiuta di vendere la Fiat a Daimler (portata da Deutsche Bank azionista di riferimento del Konzern tedesco e socio della Fiat) chiede a Paolo Fresco, il manager venuto dall’americana General electric, di trovare un alleato made in Usa, e con la General motors stipula un patto che avrebbe visto gli Agnelli azionisti rilevanti del gruppo. Finché non arriva un altro americano, Marchionne, spuntato dal nulla, ma accreditato presso la Casa Bianca, tanto da ottenere la Chrysler senza pagare un centesimo. Galeotta fu la crisi, ma forse c’è dell’altro e i soliti dietrologi scommettono che ci sia.

L’americanizzazione, dunque, conclude un percorso addirittura secolare. Non pianificato in anticipo, naturalmente, ma quel che non cambia mai, fin dall’inizio, è la direzione di marcia. Essere americani, però, oggi non basta, bisogna diventare globali. E qui le cose si fanno ancor più difficili. Il punto di forza del nuovo gruppo è nelle Americhe, Chrysler al nord, Fiat al sud. In Cina, dopo vari sfortunati tentativi, Marchionne cerca adesso di entrare con la Jeep che però è un prodotto di nicchia e compete con gli anglo-indiani della Land Rover nei fuoristrada o i tedeschi di Bmw e Audi nei suv. Alto valore aggiunto, buoni profitti, bassi volumi. E il volume conta se Chrysler-Fiat vuole restare nella pattuglia dei primi. In Europa è un bagno di sangue: la Fiat è scesa al 6% del mercato e la Chrysler ha una posizione minima. Entrambe sono senza alleati. Il tentativo di prendere Opel non è andato e Marchionne ha visto come si comporta il governo di Berlino che predica la virtù agli altri e pratica il vizietto nazionalistico, i rapporti preferenziali con i boss di casa. C’è chi dice che i tedeschi avevano ragione perché la Fiat non voleva spendere un euro, modello Chrysler. In realtà avrebbero dovuto tagliare posti di lavoro.

Quanto agli investimenti, Opel è rimasta a Gm e non va da nessuna parte. Con Peugeot tutto s’è fermato di fronte all’orgoglio della vecchia famiglia di ugonotti che cominciò con i macinini da pepe. Il dossier si può riaprire ora che sono con l’acqua alla gola? Vedremo. Si era parlato anche di Bmw, ma il progetto di rilanciare l’Alfa Romeo nella fascia sportiva e di alta gamma, va dritto contro gli interessi della casa bavarese. Sia il successo della scalata alla Chrysler sia lo schiaffo ricevuto con la Opel, dimostrano quanto conta la politica negli affari, soprattutto in tempi di crisi. E ciò è ancora più vero in Europa. Marchionne ha molti amici in nord America, pochi in nord Europa, nessuno in Germania, la cui influenza a Bruxelles ha sempre messo i bastoni tra le ruote alla Fiat a favore della Volkswagen che resta ancora a partecipazione pubblica nonostante il ritorno dei Porsche (azionista rilevante è il Land della bassa Sassonia). A questo punto si pone un delicato problema, proprio mentre si avvicinano le elezioni e il cambiamento al vertice della Ue. Non ci sono più i Valéry Giscard d’Estaing con i quali chiacchierava amabilmente Gianni, né gli Edouard Balladur e i potenti francesi interlocutori di Umberto. Gli Agnelli erano filo-euro nonostante le riserve di Cesare Romiti.

Oggi John Elkann non gioca nessun ruolo nel confronto in atto pro o contro la moneta unica. Marchionne ha bisogno di qualcuno influente a Bruxelles e qualcuno forte in Italia e rispettato in Europa. Aveva puntato su Mario Monti, ma non è andata. Adesso spera in Matteo Renzi, che però è semisconosciuto fuori dai confini nazionali. Dunque, deve risalire la china, usando i suoi strumenti di pressione a cominciare dai giornali, da schierare in modo chiaro sullo scacchiere dove si gioca la partita per l’euro. Per questo non servono solo penne appuntite, ma ci vuole un think tank, un gruppo di pressione, una lobby. Dovrebbe avere dietro un Paese politicamente credibile, che eserciti il suo peso e il ruolo corrispondente alla propria storia. Certo. Sarebbe meglio. Ma nel passato la Fiat ha saputo svolgere comunque la propria azione parallela, una triplice azione, in America, in Europa e in Italia, così come fanno le grandi multinazionali. La passione sviluppata da John Elkann per i media lo ha portato a conquistare il Corsera, rompendo gli antichi equilibri, dice che vuol farne la piattaforma di un grande gruppo internazionale, un po’ come è avvenuto con Chrysler. Si fa le ossa nei cda di Pearson e Murdoch. Vedremo. Ma nei media, ancor più che nell’auto, la politica conta, basti guardare al ruolo di Murdoch in Uk e negli Usa. Dunque, chi dà le carte nel Vecchio continente tiene sotto osservazione la nuova generazione degli Agnelli e le prime finestre dentro le quali guarda sono quelle del giornale di famiglia e del giornale di gruppo. Sarà interessante vedere come si posizioneranno di qui a maggio su euro, austerità, asse franco-tedesco, egemonia germanica, Club med e Gran Bretagna, insomma i grandi dossier aperti a Bruxelles.

(Articolo pubblicato sul numero 89 della rivista Formiche – febbraio 2014)

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