Quando, nel giugno del 2004, Sergio Marchionne salì sull’auto che doveva portarlo al Lingotto per il suo primo giorno di lavoro in Fiat, gli restò in mano la maniglia. Tanto per ricordargli, fin dal primo momento, che si stava accingendo a una missione disperata. Dieci anni dopo, nel giugno del 2014, super Sergio potrà celebrare i suoi primi dieci anni in Fiat nel modo che preferisce: lavorando, circondato dai telefonini che lo mettono in contatto con i collaboratori più stretti. Saranno infatti giorni decisivi per completare i file necessari per la fusione del secolo: Fiat-Chrysler, settima potenza del mondo a quattro ruote che andrà nel giro di pochi mesi a raggiungere sul listino di Wall Street la cugina Cnh Industrial, frutto dell’integrazione dell’Italiana Iveco con Case New Hollande. Eppure, nonostante questi indiscutibili successi, Marchionne sarà ancora sotto esame. E non solo per le accuse, ormai un po’ ritrite, dei pasdaràn della Fiom o per i rancori delle strutture confindustriali, abbandonate senza troppi rimpianti.
No, Marchionne dovrà dimostrare al mondo delle quattro ruote, l’esclusivo club cui appartengono i signori dell’auto, di essere un autentico automotive guy. Una qualifica che, per ora, il Financial Times non gli riconosce. “Se volete un consiglio – ha scritto John Gapper riecheggiando i pareri di alcuni ceo del settore – non sedete mai al tavolo del poker con questo signore” riconoscendo così la sua impareggiabile capacità di negoziatore. “Ma – continua con una punta di veleno – nonostante lui sia ormai da dieci anni alla guida di Fiat, il manager italo-canadese è in parte un corpo estraneo al mondo dell’auto. Non è un ingegnere come Martin Winterkorn alla guida del gruppo Volkswagen, ma non è nemmeno un manager a tutto tondo come Alan Mulally di Ford. È un grande negoziatore che governa Fiat e Chrysler come un autocrate circondato dalla sua corte”. Insomma, Marchionne, come succede agli uomini dalla forte personalità, è destinato a dividere. Certo, è difficile contestare il manager in maglioncino blu, viste le performance accumulate nella sua lunga cavalcata. Nel corso di dieci, incredibili anni Marchionne ha saputo realizzare numerose imprese impossibili: ha saputo incassare 2 miliardi di dollari da Gm per liberare il gruppo di Detroit dall’obbligo di acquisire tutta la Fiat; ha conquistato il controllo di Chrysler per poco più di 4 miliardi di dollari contro i 36 miliardi di dollari pagati da Daimler nel 1998; ha saputo assicurare alla Fiat brasiliana i capitali necessari per sviluppare gli investimenti utili a garantire al gruppo la leadership in un mercato che nel frattempo ha raddoppiato le sue dimensioni.
Sotto la sua gestione Chrysler, la più fragile dei big di Detroit, ha inanellato 43 mesi consecutivi di crescita delle vendite, accumulando un discreto cash in cassa. Tutto vero, ma se in questi dieci anni Marchionne si è rivelato abile nel creare valore anche in situazioni estreme, altrettanto non si può dire per altre aspetti della sua performance. In particolare sul piano del prodotto. Rispetto al 2004, anno del suo arrivo, il gruppo Fiat ha prodotto in Italia meno della metà delle vetture; la marca Alfa Romeo è scesa sotto le 100mila unità; Lancia si avvia a un ruolo ancor più marginale. Per quanto riguarda Fiat, il calo della quota di mercato in Europa, scivolato sotto il 6%, è un eloquente simbolo della decadenza dell’offerta, con la sola eccezione della linea “500”. In parte, questi dati negativi sono la conseguenza inevitabile di una scelta dolorosa, ma saggia: Fiat, di fronte alla caduta verticale del mercato, ha evitato lo sviluppo di nuovi prodotti che non avrebbero trovato (l’esperienza Peugeot insegna) una domanda adeguata. Vero, ma è altrettanto vero, a riguardare i precedenti business plan Fiat, che le promesse su Lancia, Alfa Romeo e l’espansione in Cina, per non parlare dei piani sull’India, erano ben diversi. E se si guarda all’esperienza Chrysler, si deve prender atto che, per ora, Marchionne si è rivelato abile nel valorizzare i modelli e le tecnologie ereditate dal passato piuttosto che a miscelare i motori “verdi” di origine italiana con la cultura di Detroit. E la linea della “500”, sbarcata in Usa con tante speranze (al punto da avviare la produzione nell’impianto di Tijuana) non ha avuto il successo sperato di vendite. Di qui la sensazione che la Fiat cui Marchionne tiene di più, quella da cui dipenderà la sua ascesa nel Pantheon dei grandi dell’auto, sia appena cominciata. È questa la posta in gioco del prossimo business plan Alfa Romeo, il quarto lanciato da Marchionne dal suo arrivo. Il primo, però, in cui le ambizioni saranno sostenute da mezzi finanziari adeguati o, quantomeno credibili. Sarà necessario attendere aprile per avere informazioni più dettagliate sul progetto. Ma fin d’ora è evidente l’impronta originale del leader.
Nell’intervista a Repubblica si fa riferimento al “capannone fantasma” in cui nascono i primi prototipi, promossi dopo tante bocciature di modelli troppo “stile Fiat” (quasi fosse un insulto…), frutto del lavoro dello staff di Philippe Krieff, l’ingegnere francese, in arrivo da Ferrari, cui è stato assegnato il compito di sviluppare un nuovo pianale a trazione posteriore con quattro ruote motrici capace di far assaggiare la polvere ad Audi e Bmw. Sarà su quest’architettura che nasceranno a Cassino la Giulia e il relativo station wagon, mentre a Mirafiori, conquistata dal Biscione, andranno l’ammiraglia e il Suv Levante. Insomma, le idee stanno per uscire dai cassetti, giusto in tempo per il varo del convertendo che accompagnerà le nozze con Chrysler, prima dello sbarco a Wall Street. E i nuovi investimenti negli impianti italiani addolciranno la pillola del trasloco dall’Italia di quel che resta del quartier generale di quella che fu la Fiat e dell’attività finanziaria legata a Piazza Affari. Tutto bene, purché d’ora in poi al centro del progetto ci siano i prodotti, per cui si dovrà attendere almeno fino alla fine del 2015, vista l’ennesima “rivoluzione” che ha sconvolto i piani precedenti. È il grande passaggio che potrebbe promuovere Marchionne da “re del poker” imbattibile nelle trattative a leader di un’industria normale, con una gerarchia ben definita. Il nuovo Marchionne, una volta uscito dal guado, promette di farcela. Andrà così? Speriamo che il Financial Times si sbagli: “Io credo che stia facendo un bluff – scrive John Gapper – lui non è un uomo dell’auto e non lo diventerà mai, anche se lo volesse”. Non è il primo che scommette contro super Sergio. Finora, però, ha sempre vinto lui. Speriamo che succeda ancora, per il bene di un’industria italiana che lui, al di là delle chiacchiere, ha salvato dal disastro.
(Articolo pubblicato sul numero 89 della rivista Formiche – febbraio 2014)