Il governo, in particolare il ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, Luigi Di Maio è tornato ad annunciare il taglio delle cosiddette ‘pensioni d’oro, in quanto sono un privilegio, come i vitalizi degli ex parlamentari, e un modo per ‘ridare i soldi ai cittadini’: temiamo che entrambi i ragionamenti siano frutto di grossolani equivoci, o meglio risentano ancora di un surplus di enfasi elettorale. Veniamo ai privilegi, innanzi tutto. Percepire una pensione (o reddito differito come dicono gli economisti) significa aver versato i relativi contributi in base alle leggi vigenti: rimettere in discussione, a posteriori, questo diritto vuol dire scardinare il patto fra lo Stato e i cittadini. Abbiamo seguito con attenzione e rispetto le prime mosse del nuovo governo e attendiamo di incontrarne i rappresentanti per discutere dei problemi delle categorie che Cida rappresenta. Ma siamo costretti ad intervenire prima di un confronto, perché quello sulle pensioni d’oro è un tema vecchio e privo di reale efficacia in termini di risparmio e recupero di risorse.
E veniamo, appunto, all’aspetto economico, sottostante a quello di principio, dell’equità. Manager, dirigenti e quadri, sono spesso titolari di pensioni ‘dignitose’ frutto di una contribuzione pesante, determinata e regolamentata dalle leggi. Secondo il centro studi Itinerari Previdenziali, la platea di pensionati potenzialmente interessati dal futuro provvedimento (calcolando 5mila euro netti) ammonta a poco meno di 30mila soggetti, che cumulano un reddito pensionistico lordo annuo che si aggira sui 2,8 miliardi di euro: recuperare le risorse suggerite dal ministro, vorrebbe dire usare la ‘mannaia’ con un inevitabile, diffuso, contenzioso giudiziario. Ma c’è di peggio. Nelle dichiarazioni rese alla stampa dal ministro Di Maio, non viene indicato con sufficiente chiarezza, il ‘tetto’ che dovrebbe distinguere le pensioni d’oro dalle altre: 4mila o 5mila euro? Qual è il criterio per definirlo? In base all’ammontare che si vuole ottenere? quindi non è questione di equità, ma di cassa.
Inoltre se si volesse attuare quanto proposto dal ministro con il cosiddetto ‘ricalcolo’ delle pensioni di importo medio-alto, si darebbe luogo ad un pericoloso precedente. Infatti oltre alla difficoltà oggettiva di attuarlo praticamente (per la componente pubblica sarebbe impossibile, perché mancano i dati relativi alla storia contributiva dei pensionati) si aprirebbe la possibilità teorica di rivedere tutte le pensioni. Insomma si potrebbe prefigurare uno scenario di ‘fantascienza previdenziale’ in cui la pensione sarebbe uguale per tutti a prescindere dal lavoro svolto e dai contributi versati.
Ma, per il momento, limitiamoci ai fatti e ragioniamo su quanto è possibile desumere dalle dichiarazione ufficiali del neo ministro del lavoro. L’ipotesi realisticamente percorribile sembra quella dell’ennesimo contributo di solidarietà comminato alle pensioni di importo medio-alto. E’ del tutto evidente che Cida non può accettare che i suoi rappresentati – manager, dirigenti privati e pubblici, quadri, alte professionalità – vengano ingiustamente penalizzati con una classica ‘stangata’ camuffata da atto di giustizia ed equità.
Per quanto riguarda, il primo obiettivo che ci poniamo è quello di contestare la stessa terminologia usata nei confronti delle pensioni medio-alte arbitrariamente definite ‘pensioni d’oro’. Uno slogan che ha purtroppo attecchito con la nefasta conseguenza di considerare tali pensioni una sorta di ‘privilegio’ da sanare. E’ una storia, purtroppo, già vista che ha portato a ben 8 interventi sul meccanismo di perequazione automatica (con conseguente perdita del potere d’acquisto valutata in almeno il 15%) e a vari contributi di solidarietà.
Un concetto, quest’ultimo, che chiaramente attiene alla fiscalità generale e non certo a prelievi forzosi ai danni di chi ha versato onerosi contributi previdenziali e ha percepito redditi commisurati all’impegno professionale ed alle capacità personali. Redditi sui quali, va ricordato, si applicano – oggi, come in passato – pesanti aliquote fiscali che determinano l’effetto perverso per cui la categoria (privilegiata) dei dirigenti è una di quelle che maggiormente contribuisce al gettito Irpef complessivo e al sostentamento del welfare nazionale.
Altro argomento su cui riflettere è quello del diritto: stiamo parlando di diritti acquisiti, di uomini e donne che hanno cessato il rapporto di lavoro in base alle leggi vigenti e che hanno costruito i propri progetti di vita su questi assunti. Stiamo parlando del ‘patto’ fra Stato e cittadini che non può essere inficiato da interventi retroattivi penalizzanti un’intera categoria. Né è accettabile l’abuso di decidere a tavolino il limite che trasforma una pensione in un privilegio. Insomma siamo giunti al confine fra la fine dello Stato liberale e di diritto e l’affacciarsi di uno Stato totalitario.