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Pensioni d’oro e non, dagli slogan al confronto. I manager ci stanno

L’utilizzo degli slogan serve a semplificare i concetti, ad ‘appiattirli’ sminuendone la complessità e la necessità di approfondimento. È un meccanismo ben noto a chi si occupa di comunicazione o di pubblicità, ma che in politica ha un effetto perverso perché sposta il confronto dal piano del contenuto a quello dell’immagine, anzi della percezione stessa che le parole tendono a suggerire. L’esempio forse più eclatante è di questi giorni: le pensioni definite ‘d’oro’ per assimilarle concettualmente ad odiosi privilegi da abolire e a categorie di privilegiati da punire. Non passa giorno che il ministro del Lavoro non rinnovi l’impegno a cancellare questo tipo di pensioni, ricalcolandole su base contributiva e in più lasciando fluttuare l’asticella che le determina, fra i 4.000 ed i 5.000 euro. L’obiettivo, viene detto con non poca retorica, è quello di ristabilire l’equità e redistribuire le risorse così ottenute ai pensionati al minimo.

Cida, come confederazione rappresentativa di categorie professionali rientranti nelle fattispecie interessate dall’annunciato intervento in materia previdenziale, ha più volte denunciato la falsità dell’assunto, l’incongruenza della decisione politica e la evidente illegittimità giuridica di un siffatto provvedimento. Autorevoli giuristi e costituzionalisti non hanno esitato a criticare la strada che si vorrebbe intraprendere, facendo anche intendere che piogge di ricorsi sarebbero pronte a riversarsi nelle aule giudiziarie rendendo complicata e probabilmente vana l’applicazione di una volontà politica così dichiaratamente punitiva di un certo numero di pensionati.

Noi rimaniamo testardamente ancorati ai fatti, al rispetto delle norme e dei diritti per mettere in fila tutte le contraddizioni che emergono da un tale comportamento. Innanzitutto si vorrebbe attuare una riforma con caratteri di retroattività sui trattamenti previdenziali in essere: nessun Paese europeo ha mai azzardato una simile operazione con forti implicazioni di incostituzionalità. La Corte costituzionale è stata chiara in merito: eccezionalità, proporzionalità, ragionevolezza, sostenibilità, transitorietà e carattere interno al sistema previdenziale sono caratteristiche imprescindibili di ogni eventuale prelievo sulle pensioni già erogate. Altrimenti tale prelievo avrebbe carattere tributario e dovrebbe essere applicato su tutti i redditi e non su un solo tipo di reddito.

Verrebbe meno, inoltre, la stessa certezza del diritto, un vulnus potenzialmente in grado di colpire tutti i diritti e le situazioni giuridiche consolidate dei cittadini, a totale discrezione dei governanti di turno. Non è un esercizio teorico: non esisterebbero più certezze e garanzie, con evidente ripercussioni sulle tipologie contrattuali dei rapporti economici (mutui, leasing, ecc.)

Entrando nel merito della questione le cose di complicano. Il ricalcolo con il sistema contributivo delle pensioni già erogate con il sistema retributivo o misto è praticamente impossibile. Per moltissime categorie, fra le quali molti dirigenti statali, mancano i dati per ricostruire il montante contributivo. Estremamente complicato, ancora, è applicare un coefficiente di capitalizzazione corretto che dovrebbe essere collegato all’effettiva dinamica del Pil (e che quindi non può essere solo presuntivamente ricostruito). Anche calcolare correttamente i coefficienti di rivalutazione è arduo, con il rischio che risultino totalmente arbitrari. Sui coefficienti di rivalutazione, inoltre, va fatta chiarezza: le pensioni alte sono state fortemente penalizzate con coefficienti di rivalutazione decrescenti, fino allo 0,90%, che hanno spesso portato l’indice di sostituzione anche al 60%. Fra l’altro, chi aveva questo coefficiente di rivalutazione ha anche già pagato imposte dirette altissime nel corso di tutta la vita lavorativa.

Ed è proprio sul capitolo fisco che va posta attenzione, perché strettamente collegato alle pensioni di importo medio-alto. Secondo gli ultimi dati disponibili relativi alle dichiarazioni ai fini Irpef 2016, i redditi lordi sopra i 100 mila euro rappresentano l’1,10% dei contribuenti (pari a 451.257 contribuenti), che tuttavia coprono da soli il 18,68% (18,17% nel 2015) dell’Irpef. Sommando a questi scaglioni anche i titolari di redditi lordi superiori a 55.000 euro, si ottiene che il 4,36% dei contribuenti paga il 36,53% di tutta l’Irpef. Il vero paradosso del sistema va rilevato tra questi due estremi delle classi di reddito dichiarato: il 44,92% dei cittadini paga solo il 2,82%, mentre il 12,09% ne paga ben il 57,11% (56,66% nel 2015) che va sostanzialmente a finanziare il sistema di welfare nazionale. Eppure queste categorie professionali, sono colpite sia come percettori di redditi da lavoro con l’eccessivo prelievo fiscale, sia come titolari di pensioni medio-alte, subendo blocchi di perequazione al costo della vita e continui contributi di solidarietà.

In questo scenario si profila, minaccioso, il possibile ricalcolo contributivo prospettato dal ministro del Lavoro. Cida ha messo nero su bianco le proprie riserve ed i diffusi timori di un nuovo intervento in campo previdenziale. Intere categorie professionali – manager, dirigenti privati e pubblici, presidi, medici, ma anche diplomatici, ex magistrati, militari, ecc. – subiscono, allarmate, una campagna comunicativa a colpi di slogan, con tratti spregevoli e comunque distorsiva della realtà. Abbiamo chiesto con urgenza un incontro con il ministro Luigi Di Maio per esternare questo gravoso stato d’animo e portare la nostra opinione ed i nostri argomenti sui temi della previdenza. Siamo convinti di avere le carte in regola per dimostrare la ragionevolezza e la veridicità delle nostre posizioni. Non abbiamo mai temuto il confronto, ma ci opporremo ad ogni tentativo di gogna mediatica.


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