Scrivo in pieno, dichiarato conflitto di interessi: lavoro a Rtl 102.5, la radio più ascoltata d’Italia, da oltre 20 anni. Come se non bastasse, il primo contatto operativo avvenne nella primavera del 1997, in un colloquio romano con Roberto Arditti, allora direttore delle news di Rtl e oggi, oltre mille cose, direttore editoriale del sito che ospita queste righe. Detto questo, parliamo della Radio, affacciatasi al terzo millennio con un entusiasmo, una forza e una freschezza sbalorditive. Per chi non la conosca.
I dati d’ascolto diffusi ieri, relativi al primo semestre del 2018, frutto del lavoro di Ter (Tavolo editori radio), parlano di 34 milioni e mezzo di ascoltatori ogni giorno, una platea sterminata, ma soprattutto maturata nel tempo. Al di là della fisiologica battaglia fra i vari player, infatti, quello che affascina è la crescita esponenziale della credibilità del mezzo. Nei miei ormai 30 anni di radio, ho visto cambiare tutto: quel mondo spaccato a metà, fra l’universo-Rai e le commerciali (le “private” dei tempi ruggenti) semplicemente non esiste più. Merito, senza se e senza ma, del lavoro degli imprenditori del settore, gli unici a conservare una presenza significativa e determinante di editori puri. Gente nata con il pallino della radio, prima pionieri, poi interpreti di un business, oggi centrale per la formazione e maturazione della pubblica opinione.
Le radio commerciali, un tempo rifugio dell’intrattenimento leggero e quasi esclusivamente musicale, sono riuscite nell’impresa di non perdere questa impronta (una sorta di anima), sviluppando al contempo un peso specifico impensabile, all’inizio della mia esperienza professionale. Per farla semplice, se allora passavi molto tempo a spiegare chi fossi e cosa volessi, oggi hai il problema di gestire la fila di chi voglia parlare con te, per sfruttare il palcoscenico. Un successo clamoroso e da maneggiare con cura, per non intaccare il bene più prezioso: la libertà e spontaneità di espressione.
Tornando al mio conflitto di interessi, se oggi Rtl 102.5 può vantare sette milioni e seicentomila ascoltatori al giorno, staccando la più vicina inseguitrice di due milioni di ascoltatori nel giorno medio, è certamente perché scelse per prima di abbattere gli schemi: davanti al microfono non vanno dj o giornalisti, vanno conduttori. Liberi, ma responsabili in prima persona dei contenuti. Non ci sono autori, ci deve essere preparazione e onestà intellettuale. La radio non ha mai fatto sconti: in radio, se fingi si sente ed è persino peggio che vederlo.
A proposito di “vedere”, fu sempre Rtl 102.5 a inventarsi la “radiovisione”, apparente contraddizione in termini, in realtà terza via fra la tv e mamma Radio. Rtl, oggi imitatissima, la ascolti anche in televisione, perché non scimmiotta i canoni televisivi, fa altro.
Mezzo flessibile e duttile per eccellenza (gestisce il web con molta più naturalezza della tv), la radio sta bene e starà ancora meglio, a patto di garantire libertà imprenditoriale. Le concentrazioni a cui stiamo assistendo, Mediaset fa collezione di emittenti come la Juventus di giocatori al calciomercato, possono mandare a pallino il sistema. Nessuno invoca steccati, ma sapere cosa si possa e non si possa fare è centrale in un sistema di sana concorrenza.
Il pluralismo e questa magnifica libertà, maturati mentre l’attenzione era tutta per il miliardario mercato televisivo, sono un bene prezioso per l’Italia.