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La Cina alla (ri)conquista della Siberia russa

Di Alberto Belladonna
siberia

Nel 1991, al seguito di una spedizione sino-russa lungo le rive del fiume Amur, lo scrittore Tiziano Terzani descriveva con vivido realismo la situazione esistente al confine tra l’Unione Sovietica e la Repubblica popolare Cinese. Alle lande desolate russe, difese da sparuti avamposti militari, si contrapponevano innumerevoli insediamenti cinesi che premevano lungo tutta la linea di confine nord orientale.

A distanza di quasi trent’anni e nonostante gli enormi cambiamenti intervenuti, la situazione al confine siberiano non sembra essere mutata, costituendo semmai una potenziale pericolosissima polveriera pronta ad esplodere nel prossimo futuro.

Un complessivo calo della natalità in tutta la Federazione Russa, unito alla crisi economica dei territori siberiani seguita al crollo del sistema economico sovietico, ha determinato infatti una drastica riduzione della popolazione residente. Secondo i dati dell’ultimo censimento russo la popolazione del Distretto Federale dell’Estremo Oriente, il più esteso della federazione ma anche il meno abitato, sarebbe scesa dai nove milioni del 1990 a poco più di sei milioni di persone nel 2010. Di contro, nelle sole tre provincie cinesi nord-orientali dello Jelin, Heilongjiang e Liaoning, ubicate nella sponda opposta del fiume Amur, vivono circa cento milioni di persone, con una densità 30 volte più alta delle quattro provincie del Distretto Federale russo più vicine.

LA PRESENZA CINESE IN RUSSIA

Come nel principio dei vasi comunicanti, si assiste sempre più ad una crescente immigrazione cinese verso quelle regioni di confine facenti parte, fino al trattato di Pechino del 1860, del territorio del Celeste Impero, parte integrante della Manciuria, terra d’origine dell’ultima dinastia imperiale Qing. Secondo le stime ufficiali, lungo il confine si troverebbero attualmente circa 300mila cinesi anche se valutazioni più realistiche sostengono che gli immigrati cinesi, molti dei quali illegali, potrebbero già essere un milione e mezzo.

La migrazione cinese in Siberia inizia intorno alla fine degli anni ‘90 allorquando migliaia di ettari di terreni, dichiarati incoltivabili e abbandonati in seguito allo smantellamento delle fattorie collettive sovietiche, iniziarono progressivamente ad essere presi in concessione da imprese cinesi. L’esigenza cinese di soddisfare la crescente domanda alimentare interna e la favorevole predisposizione delle autorità locali russe a garantire lunghe concessioni spesso a tassi preferenziali per trarre profitto da terreni dallo scarso valore economico, hanno fatto sì che centinaia di migliaia di ettari siberiani siano oggi in mano ad imprese cinesi. Come esempio si citi il contestato Mou sottoscritto nel 2015 dal governatorato della regione russa del Trans-Bajkal che prevedeva la concessione per 49 anni alla cinese Hua’e Xingbang di 15mila ettari di terreni ad un prezzo simbolico di circa $5 per ettaro.

La crescente immigrazione cinese in Siberia non si limita però solamente all’affitto di terre da coltivare ma si sta imponendo in quasi tutte le attività economico-commerciali della regione. D’altronde, distante decine di migliaia di chilometri dal centro economico del Paese, la Siberia commercia solo per il 10 per cento con il resto della Federazione Russa mentre gran parte del commercio si svolge con la Cina i cui centri economici sono molto più vicini.

A completare il quadro va aggiunto il crescente interesse di Pechino nei confronti delle risorse naturali siberiane. Da qui la necessità di sviluppare progetti infrastrutturali comuni, come annunciato dal presidente Xi Jinping nel luglio 2017 col varo di un nuovo fondo di 10 miliardi di dollari a beneficio di progetti infrastrutturali transfrontalieri. Tra le intese più importanti tanto in termini economici quanto strategici concluse tra i due paesi nell’ultimo periodo rientra l’accordo siglato nel maggio del 2014 tra la russa Gazprom e la China National Petroleum Corporation (Cnpc). Un accordo dal valore di 400 miliardi di dollari che prevede la fornitura per 30 anni di 38 miliardi di metri cubi di gas siberiano proveniente dai giacimenti orientali di Irkutsk e Yakutia attraverso il nuovo gasdotto “Power of Russia”. Power of Russia sarà operativo a partire da metà del 2019 e con i suoi 3 mila chilometri sarà il più lungo gasdotto del mondo contribuendo a far della Russia il principale fornitore di gas naturale verso la Cina.

RISENTIMENTO RUSSO VERSO LA CINA

Nonostante il consolidamento dei rapporti economici tra i due Paesi, tra la popolazione russa inizia a serpeggiare un diffuso malcontento rispetto alla crescente presenza cinese in Siberia. Mentre infatti lo Stato ha concentrato i propri investimenti nel settore più redditizio dello sfruttamento dei giacimenti minerari, di gas e petroliferi, ha acconsentito alla concessione di grandi porzioni del proprio territorio meno profittevoli a beneficio di imprese cinesi. Ma a che prezzo? Funzionari locali affermano che le concessioni hanno apportato un grande beneficio economico per una regione tra le più povere della Federazione Russa. La popolazione locale contesta invece che a beneficiare delle concessioni siano solo una ristretta oligarchia mentre le imprese cinesi agiscono secondo una logica di depredamento in violazione della stessa legge russa. Tutto ciò senza considerare il fatto che la maggior parte delle imprese cinesi porta con sé la propria manovalanza, limitando al massimo anche eventuali possibilità di impiego per la popolazione locale.

Ad accrescere il malcontento russo nei confronti della presenza cinese vi è anche il timore che essa non sia più soltanto legata all’occupazione economica di aree in abbandono ma sia piuttosto il frutto di un deliberato progetto politico volto a controllare le risorse e i territori cinesi perduti nel XIX secolo. Ad avvalorare tale timore vi sono numerose analisi che sottolineano i rischi in termini militari e geopolitici di tale attività. In particolare la Cina starebbe concentrando i propri interessi verso la regione del Transbaikal, a discapito della limitata profittabilità economica di queste terre, per la sua collocazione geografica, crocevia delle arterie di comunicazione più importanti della Siberia.

Il nazionalismo cinese verso questi territori è sempre stato molto acceso, così come i dissidi tra Mosca e Pechino sul controllo della regione, culminati nel 1969 in un vero e proprio scontro armato.  Tuttavia, nonostante i due paesi abbiano intrapreso a partire dai primi anni 90’ una serie di negoziati volti a normalizzare le proprie dispute territoriali, più del nazionalismo cinese, sono piuttosto gli inarrestabili fenomeni economico demografici che stanno investendo quest’area a sancire il ritorno di Pechino nei territori.

Alberto Belladonna, professore di Geoeconomia e commercio internazionale presso la Universidad Francisco Marroquin di Città de Guatemala

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