“La secolarizzazione è uno di quei concetti tomba in cui tutto ciò che si mette dentro finisce per ricevere un sapore di morte. Ma è finita: siamo nel tempo della post-secolarizzazione, cominciata con la negazione della possibilità che un uomo, quell’uomo di Nazareth, diede la Sua vita per noi, e che sia il simbolo dell’esistenza dell’umanità. E quindi l’idea della religione nei limiti della sola ragione, e i vari tentativi di sostituire questo universale, questo fattore unificante dell’io, della Chiesa e della famiglia umana”. Questo dove ci ha portati? “Nel problematicismo radicale e nell’impossibilità di parlare del senso della vita. In questo senso quando si parla di secolarizzazione bisogna parlare della sua fine: abbiamo davanti un tempo nuovo. Adesso dobbiamo alzare lo sguardo e domandare, mendicare, la novità del nostro cuore, e che questa intacchi le persone che incontriamo”.
Si trattava sicuramente di uno degli incontri più attesi del Meeting di Comunione e Liberazione, quello del cardinale Angelo Scola, arcivescovo emerito di Milano, tornato sul palco della manifestazione di Rimini dove non si vedeva più dall’ormai lontano 2004, ad eccezione di una presenza nel 2010. Lo ha fatto in occasione della presentazione della sua autobiografia, “Ho scommesso sulla libertà”, che esce il 23 agosto per Solferino, scritta assieme al giornalista Luigi Geninazzi. In mezzo, oltre alla sua vita di religioso, prima come Patriarca di Venezia poi come Arcivescovo di Milano fino alla sua decadenza per limiti di età, il conclave del 2013 che ha visto l’elezione di Papa Francesco.
“Non amo parlare di crisi, perché è un discorso del passato, mentre il travaglio punta tutto sul futuro, pensiamo alla donna che partorisce e patisce i dolori del parto, percependo dal profondo di sè la tensione dell’aspettativa e dell’attesa, ma che è retta e sorretta dalla speranza del futuro, da quella novità che è la nascita di suo figlio. Il cristianesimo a partire dalla modernità, dalla seconda parte dell’umanesimo, ha perso questa percezione cristica perché fu l’esperienze che Cristo fece e fa fare a chi lo incontra: essere mossi e animati dal desiderio che una novità appaia nella mia vita per amore, e che si dilati”.
LE VOCI SUL CONCLAVE DEL CARDINALE SCOLA
Inevitabile però non toccare il tema di quelle voci che a lungo lo hanno dato, ripresentate con insistenza anche dopo il conclave, come possibile pontefice. “Voi sapete che intorno all’ultimo conclave è circolata una clamorosa fake news, quella che ha fatto dire a tutti che io sono entrato Papa per uscire, secondo regola, cardinale. È assolutamente non vero perché mi era evidente, come ad altri cardinali nelle giornate precedenti il conclave, che la stanchezza profonda dell’Europa, che non ci deve scoraggiare, e la perdita del senso della presenza contemporanea di Gesù alla vita della persona delle comunità cristiane e delle chiese propria delle realtà europee, non sarebbe più stata in grado di esprimere la figura di un papa”, risponde Scola.
“Non c’erano le condizioni e vi assicuro che nella vita ci possono essere tutte le tentazioni, ma questa cosa di diventare Papa non mi ha mai toccato. Tanto è vero che lasciando i miei della Curia a Milano lo dissi: nel bene o nel male, che vi piaccia o meno, state tranquilli ma quel papa non sarò io. Perché dico questo? Perché realmente Francesco rappresenta quella novità che abbiamo il dovere di imparare”.
IL RACCONTO DELLA VITA DEL CARDINALE
Il lungo intervento di Scola si è articolato in un’intensa e appassionata catechesi, di fronte al popolo ciellino che non si lasciava sfuggire una parola o uno sguardo, e che si intrecciava al racconto disteso della sua esperienza personale e di vita, quel desiderio di “accogliere un ridimensionamento della mia persona”, e “lo dico in senso etimologico”, ha spiegato il porporato: “riportarla alle sue dimensioni reali, senza più narcisismi, ambizioni, elementi di auto affermazione. Che è entrare un po’ di più in quella humilitas che per il cardinale Borromeo caratterizza la chiesa milanese, e che ci e stata insegnata da don Giussani nel suo valore adeguato, non moralistico, nella caduta cioè della falsa umiltà”.
Un fatto che a Scola “consente di riuscire a guardare al cambiamento di epoca di cui parla papa Francesco, che sta investendo tutti, a tratti come un tornado e in altri come la famosa Chernobyl spirituale di cui parlava don Giussani, con attitudini di larghezza verso la confusione in cui sono immersi uomini e donne del nostro tempo”.
IL CAMBIAMENTO D’EPOCA DI PAPA FRANCESCO
Questo, ha spiegato il cardinale, “al di là di tutti i miei limiti mi fa cantare un inno di gioia e di amore verso la Chiesa in tutte le sue manifestazioni, in modo particolare, per me, verso l’appartenenza al carisma di don Giussani”. Sulla morte, ha poi proseguito Scola, “purtroppo sono ancora lontano da questa attitudine che concepisce la morte al centro della vita, che è una cosa che fa solo il cristianesimo, perché recepisce la morte non come una annullamento ma come uno scivolare dall’abbraccio degli amici e dei fratelli e sorelle cristiane nelle braccia di Dio”.
“Io sto facendo anzitutto il prete, ho la fortuna di non farlo sotto i riflettori, ed è una fortuna perché i giornalisti sono una tribù molto particolare”, ha confessato sorridente a chi era accorso per ascoltare parlare della sua vita, della sua fede e del suo rapporto con Dio. “Fare l’arcivescovo di Milano è domandare alla Madonna la Grazia che il desiderio di vedere il volto di Dio la vinca sull’uggiosa preoccupazione della morte. Questo è quello che mi sta più a cuore”.
IL TEMA DELLA TESTIMONIANZA OGGI
Perché Scola parla invece, riferendosi a Bergoglio, di un papa inedito? “Il dato è un po’ sotto gli occhi di tutti. Grandi pensatori hanno spesso ripetuto: lo stile è l’uomo. È indubbio che lo stile di papa Francesco è molto personale e non dobbiamo neanche negare che è stato ed è molto sorprendente, per noi. Una volta ho detto che la sua elezione è stata come un salutare pugno allo stomaco per noi europei, salutare. Un modo in cui lo Spirito si è servito di noi per risvegliarci. Il suo ministero, il modo di vivere la sua vocazione, che lui definisce molto bene quando parla di discepoli missionari, è fatto di gesti e segni molto concreti, e di una cultura di popolo che solo in Argentina e in altre regioni dell’America latina si è sviluppata”.
Certo, senza considerare che la parola popolo è spesso implicata in “un pregiudizio negativo”, ma che “noi dobbiamo intendere bene. Francesco quando parla di popolo parla di pueblo fidel, con gesti, esempi e cultura di popolo che vuol dire immissione nella cultura di popolo e insegnamento in senso stretto della parola. Basta pensare alle sue encicliche, istruzioni, omelie di santa Marta o catechesi del mercoledì”.
IL RAPPORTO CON IL PAPATO
La domanda, allora, dei presenti, vira su quale insegnamento e conclusione trarre da tutto questo. “Come quando Giovanni Paolo II diceva che bisogna imparare Roma, noi dobbiamo imparare questo Papa”, afferma Scola. “Evidentemente accogliendo e accettando il suo stile fino in fondo, e penetrando in quegli aspetti che costituiscono un elemento di novità nell’esercizio del papato, rispetto ai papi precedenti, con i quali nella sostanza però è assai in continuità: nei gesti, in un linguaggio che esemplifica un senso di profonda familiarità con il popolo e con il popolo fedele, e gli insegnamenti, che risentono della grande qualità del continente americano, che è come se in questo momento sesse accompagnando anche le chiese di prima evangelizzazione come le nostre, invitandole pazientemente a una ripresa”.
Questo, chiosa tranchant il porporato, “non ha nulla a che fare con gli scontri tra conservatori e progressisti, dove i primi si lamentano perché non dice più quel che pensano loro e i secondi sono contenti e dicono che dice quelle cose che loro dicevano da cinquant’anni. Sbagliano tutti e due, gravemente”.
GLI IMMIGRATI E LA PAURA COME SENTIMENTO UMANO
Un altro tema oggetto dell’incontro è stato quello, tutto politico, delle migrazioni. “Chi di noi non ha paura? La paura è un sentimento umanissimo. Quando ero bambini per tornare a casa passavo in un viottolo sassoso buio, ricordo la velocità con cui facevo quel pezzo di strada, perché sempre immancabilmente la paura mi prendeva”, ha raccontato Scola. “Si parla tanto di accoglienza degli immigrati, di questo fenomeno di cui io parlo da ormai vent’anni di meticciamento delle civiltà, e ci stupiamo che la gente abbia paura? Di fronte a filosofie e stili culturali cosi diversi, al vivere con sul pianerottolo persone che hanno un altro senso della vita, dell’organizzazione, dell’ordine, e ad accettare colori e sapori che non sono ordinari”. Ma “la paura bisogna capirla, abbracciarla e farla evolvere dentro una testimonianza di coinvolgimento e di condivisione”, spiega.
“Tutti noi abbiamo fatto questa esperienza a vari livelli, per esempio di fronte alla vocazione, ai timori e ai tremori, per il sacerdozio, per la maternità o la paternità. In questo senso dobbiamo accogliere la paura in noi come una provocazione alla responsabilità e a vivere la vita come una risposta. Questa è la radice della responsabilità”, immersa “nel quotidiano” e che “tiene conto dei limiti e delle fragilità in cui sono immerso”.
LA CHIESA E IL FUTURO DEL CRISTIANESIMO
Sulla “tragica, dolorosissima e orripilante vicenda della pedofilia”, infine, Scola ha spiegato che ancora oggi “gli ultimi tre papi stanno cercando di aiutare la chiesa attraverso la preghiera, il digiuno, a ritrovare soprattutto nei suoi ministri una via di rinascita e di rinnovamento. Io penso che il Signore non ci fa mancare i segni. E io ho avuto modo di conoscere tante esperienze di giovani e di santa morte. Come una mamma che si lascia morire per amore dei suoi figlioli, accettando il proprio dolore fisico e senza soluzione: queste sono tracce di santità formidabili da cui può nascere un rinnovamento della chiesa dell’altro mondo, perché non ci sarà, come diceva Paolo VI, riforma della Chiesa senza santità. Che è l’uomo riuscito, e non l’inseguimento di chi sa”.
Poi c’è il tema della testimonianza, modalità più adeguata per rispondere alle sfide dell’epoca post -secolare, nello stile di Francesco, o condanna ad “allontanarci dal nucleo dell’esperienza cristiana”, e quindi “nel sospetto che sia troppo poco”? “Questa parola ha subito un logoramento tale che è impenetrabile e oscilla tra l’abitudinarismo del buon esempio e il nonsenso”, risponde Scola. “Don Giussani diceva a uno dei suoi alunni che prendeva sempre dieci: tu non ti rendi conto che così facendo, cosa ottima, ma dai testimonianza solo a te stesso? La testimonianza, in senso pieno e vero, è molto di più del buon esempio: è una modalità di conoscenza adeguata della realtà, e quindi di comunicazione della verità”.
L’IMPEGNO PUBBLICO DEL CRISTIANO
C’è infine un altro punto, che conclude l’intervento di Scola: “il dovere di manifestazione pubblica della propria testimonianza personale e comunitaria”. Ma c’è anche “il dovere di leggere fino in fondo ciò che il momento storico mi domanda. Ciò che è proporzionato o no, rispetto al principio irrinunciabile che voglio affermare”. E poi c’è “il rispetto alla sensibilità e allo stile di ciascuno”. Per esempio “la Manif pour tous della Francia è stato un fatto di testimonianza formidabile, perché è partito da una insurrezione popolare di base, e poi si è andata articolando in altro modo”, ha affermato Scola. “Invece altri raduni oceanici, in altri paesi, magari organizzati dall’alto con molta intelligenza, non hanno avuto lo stesso effetto perché non sono stati proporzionato al momento. E quindi non c’è una preclusione all’impegno pubblico, soprattutto su certi principi. Però bisogna assecondare le circostanze, e valutare di volta in volta”.
Interessante su questo, ha spiegato il cardinale alla fine del suo intervento, il modo in cui in CL è nato l’impegno nel ’74 per il referendum sul divorzio: “il segretario della Cei ci disse che il Papa era molto angosciato per questa realtà che porterà un grave male alla società italiana. Come certamente è successo, perché l’amore tra uomo e donna fedele, indissolubile e aperto alla vita ha generato, a partire dal cristianesimo, civiltà per migliaia di anni. Quindi, il pontefice, vi chiede di impegnarvi. Tutti eravamo convinti che si sarebbe perso, soprattutto perché Fanfani aveva cavalcato la cosa. Ma Giussani ci disse che per un giudizio storico culturale era fondamentale un criterio: che questa cosa ce l’ha chiesta il Papa, e noi la facciamo perché ce l’ha chiesta l’autorità, che si vinca o non si vinca”.