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Il senso dell’innovazione

(con Antonio Mone)

L’eterno dilemma dell’uomo tra corpo e mente continua a traumatizzare le nostre vite. Perché noi siamo qui, ora, facciamo delle cose, magari abitudinarie e noiose, ma con la mente siamo ovunque, altrove, nell’oltre,  capaci di inventare e di utilizzare gli strumenti che, sempre per nostra scelta o responsabilità, possono migliorarci la vita o rischiano di dominarci.

Il senso dell’innovazione, e di ogni innovazione, è nell’essere traumatica. È un po’ come le crisi, che sono parte spalancate al possibile e al potenziale. Condannare l’innovazione è altrettanto sbagliato come accoglierla senza senso critico; ben vediamo, e spesso commentiamo, i limiti e i rischi che ci vengono dalla realtà della società algoritmica, dell’intelligenza artificiale, solo per fare due esempi; questi temi, che sono sfide, hanno un impatto complesso sulla nostra quotidianità. Con il coautore,  giovanissimo ricercatore, ragioniamo anche brevemente, riservandoci ulteriori approfondimenti, sugli aspetti applicativi.

Troviamo inquietante ridurre la portata delle innovazioni scientifiche e tecnologiche a un pensiero lineare. Esse, infatti, necessitano di un ampio utilizzo di curiosità e di creatività perché le innovazioni non sono esperimenti “di laboratorio” bensì questioni intimamente legate al presente e al futuro dell’umanità. E’ bene, allora, aprire un dibattito sincero e profondo su ciò che le innovazioni rappresentano e su quanto la politica che conosciamo sia diventata, rispetto a esse, un’attività “dei giochi fatti”. Suggeriremmo al  Capo di Governo di un qualsiasi Paese di svolgere, come primo atto,  la convocazione, e l’ascolto, dei rappresentanti delle più importanti tendenze d’innovazione che percorrono e percorreranno il mondo nei prossimi decenni; solo così, infatti, egli potrebbe capire quali politiche adottare perché, è bene saperlo, è l’innovazione che sta radicalmente cambiando il senso dell’essere e dell’esserci, degli  Stati, delle democrazie, dei modelli di formazione, dei mercati del lavoro, dell’ordine globale. Se la politica non ha visione, la politica muore; in tale contesto, possiamo dare la colpa, scaricare la responsabilità, sull’innovazione ?

Prima di parlare di concetti come la società algoritmica e l’intelligenza artificiale è bene rendere chiaro cosa sia un algoritmo. Quando si sentono parole come “algoritmo”, si pensa subito all’ambito informatico/tecnologico e a tutto ciò che immaginiamo lo riguardi mentre un algoritmo è semplicemente un procedimento che risolve un determinato problema in un tempo finito attraverso un numero finito di passi elementare. Gli algoritmi sono presenti in tutto ciò che facciamo e il più delle volte non ce ne rendiamo conto. Anche la risoluzione di bisogni fisiologici istintivi, come ad esempio avere sete, viene inconsciamente processata tramite un algoritmo: se abbiamo sete prendiamo un bicchiere, apriamo il frigorifero, prendiamo la bottiglia d’acqua, la versiamo nel bicchiere e poi beviamo. Una semplice serie definita di passi elementari e chiari che ci portano a risolvere un problema. Ed è proprio questa la potenzialità della società algoritmica: la chiarezza. Una chiarezza che, applicata alla risoluzione di problemi di carattere sociale/politico, renderebbe trasparente ogni decisione.

Quando si parla di intelligenza artificiale l’idea generale è quella dei robot o magari di HAL9000 del film “2001 – Odissea nello Spazio” ma il discorso, in realtà, è molto più ampio. La definizione stessa di Intelligenza Artificiale (AI) è complessa dato che, dal punto di vista meramente informatico, l’AI è la disciplina che racchiude le teorie e le tecniche per lo sviluppo di algoritmi che consentano ai calcolatori di mostrare attività intelligente ed è quindi chiaro che deriva direttamente dalla nostra conoscenza del funzionamento della mente umana (che ancora non comprendiamo nella sua interezza) e da una classificazione di concetti come ragionamento e apprendimento. Per provare a definirla, senza scendere troppo nei tecnicismi, possiamo ricorrere alla definizione di Test di Turing del film Ex Machina: “il test di Turing è quando un umano interagisce con un computer e se l’umano non capisce di interagire con un computer il test è superato, fornendoci l’informazione che il computer ha un’intelligenza artificiale”.

Sorvolando le varie tipologie di apprendimento e programmazione di una AI, concentriamoci ora sugli aspetti applicativi. Ad oggi, l’intelligenza artificiale si applica già a molti ambiti tra cui marketing, sanità, cybercrime, sicurezza e supply chain management.

Nel marketing, l’AI si focalizza sulla customer care, analizzando le abitudini, le esigenze, gli interessi e i comportamenti degli utenti fino ad arrivare anche a previsioni dei comportamenti d’acquisto. All’ambito marketing è molto vicina la gestione della catena di approvvigionamento e distribuzione, che può essere completamente affidata alle intelligenze artificiali moderne che curano tutto, dalla produzione all’immagazzinamento, dall’inventario alla distribuzione e vendita. Nell’ambito sanitario, l’AI si è rivelata fondamentale sia per migliorare sistemi tecnologici già in uso da persone disabili sia nell’accelerazione del processo di diagnosi di malattie molto rare e difficili da riconoscere. Gli ambiti cybercrime e sicurezza vanno a braccetto perché l’AI, nel primo caso, si focalizza sulla prevenzione di frodi e la protezione delle informazioni, nel secondo caso – grazie all’enorme insieme di dati che ha a disposizione – può migliorare l’efficacia e l’efficienza della sicurezza pubblica come ad esempio aeroporti, stazioni o grandi città.

E’ chiaro che le nostre vite sono già fortemente influenzate dalla presenza delle AI ma ciò che non sappiamo è fin dove possiamo spingerci, motivo per cui molti personaggi di spicco come Stephen Hawking ed Elon Musk sono scettici riguardo l’avvento delle AI nella società moderna. Condividiamo il loro scetticismo non per timore di ciò che le AI possano causare all’uomo ma per timore di ciò che l’uomo possa essere in grado di fare con esse. Le chiamiamo intelligenze artificiali e vogliamo crearle a nostra immagine e somiglianza senza prima conoscere pienamente noi stessi. Innovazioni di questo tipo possono essere dannose se usate dall’uomo in modo scorretto ed è per questo che se non ci rendiamo conto di come utilizzare al meglio queste innovazioni sentiremo di nuovo qualcuno dire “sono diventato Morte, il distruttore di Mondi”.

In conclusione, auspichiamo che la politica torni ad anticipare i fenomeni storici, a comprenderli nella loro complessità, a essere visionaria. Se oggi abbiamo timore o paura, infatti, domani potremmo guardarci indietro ammirando ciò che abbiamo realizzato e considerare l’oggi come “preistorico”. Ci manca la politica e tale assenza pesa come un macigno. Il 97enne Edgar Morin, Maestro di complessità, ha detto, in una recente intervista, che non potrà vivere abbastanza per vedere le meraviglie che ci aspettano e, al contempo, ha evocato – non a caso ma con grande realismo – una riflessione strategica sulla rinascita del pensiero politico.

 

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