Lo scorso marzo Donald Trump annunciò l’imminente disimpegno degli Stati Uniti dalla Siria – i duemila soldati americani presenti sul campo sarebbero tornati a casa “molto presto”, dichiarò allora il presidente – e sollecitato gli alleati della “Coalizione Globale per Sconfiggere l’Isis” ( tra cui l’Italia) a farsi carico dei costi della stabilizzazione del paese disastrato da sette anni e mezzo di guerra civile.
Alle parole, ora, seguono i fatti. La portavoce del Dipartimento di Stato, Heather Nauert, ha reso noto ieri in una conference call che 230 milioni di dollari già assegnati alla Siria dal predecessore dell’attuale segretario di Stato Mike Pompeo, Rex Tillerson, sono stati destinati ad altre aree. L’ammanco sarà tuttavia più che compensato dagli impegni di spesa degli alleati, per un totale di 300 milioni di dollari.
Ad aprire i cordoni della borsa c’è anzitutto l’Arabia Saudita, che mette sul piatto 100 milioni di dollari, e poi Emirati Arabi Uniti (50 milioni), Kuwait, Francia, Germania, Danimarca, Australia e, secondo quanto riporta la Cnn, anche l’Italia. Come ha evidenziato Brett McGurk, inviato speciale del presidente per la Coalizione, questa disponibilità finanziaria consentirà “di continuare a pieno ritmo il programma di stabilizzazione” della Siria.
La mossa dell’amministrazione Trump non prelude quindi, come emerge da alcuni commenti preoccupati, ad un disimpegno degli Stati Uniti. “Questa decisione”, ha sottolineato Nauert, “non rappresenta alcuna diminuzione dell’impegno Usa verso i nostri obiettivi strategici in Siria”. L’America, al contrario, continuerà a coordinare gli sforzi in corso per riportare stabilità nelle aree già occupate dello Stato Islamico, tra cui l’ex capitale del califfato, Raqqa. Proseguiranno senza sosta anche le operazioni militari Usa per sradicare definitivamente la formazione jihadista, la quale – come emerge da un recente rapporto del Dipartimento della Difesa – conta ancora su 30 mila uomini armati sino ai denti e costituisce a tutt’oggi una “minaccia globale”.
Gli Stati Uniti si impegnano inoltre a esercitare pressioni sulla Russia, vero dominus della Siria e tutrice di Bashar al-Assad, affinché abbia corso la transizione politica elaborata nell’ambito del processo di Ginevra presieduto dalle Nazioni Unite. Un processo che è stato sinora ignorato da Mosca e Damasco, che dovranno adesso rifare bene i propri calcoli se vorranno beneficiare degli aiuti della comunità internazionale necessari per ricostruire un paese in macerie.
Non saranno trascurati, infine, gli obiettivi strategici più volte enunciati durante l’anno e mezzo di vita dell’amministrazione Trump: l’uscita di scena di Assad e la fine della minacciosa presenza in Siria dell’Iran e delle milizie sciite inquadrate e finanziate dai Guardiani della Rivoluzione.
Per sottolineare la continuità del proprio impegno in Siria, il Dipartimento di Stato ha proceduto ieri alla nomina di due nuove figure che si occuperanno esclusivamente di questo dossier. Si tratta di James Jeffrey, già ambasciatore in Turchia, Iraq e Albania e vice-consigliere per la Sicurezza Nazionale nell’amministrazione presieduta da George W. Bush. In qualità di “representative for Syria engagement”, Jeffrey “servirà come consigliere del Segretario (Pompeo) e come primario contatto del dipartimento su tutti gli aspetti concernenti il conflitto siriano”, ha annunciato Nauert.
Il colonnello dell’esercito in pensione Joel Rayburn, già membro dello staff del Consiglio di Sicurezza Nazionale con un portafoglio che copriva la Siria, l’Iraq e l’Iran, è stato nominato invece “inviato speciale per la Siria”. A lui il compito di perseguire quella che appare la missione chiave degli Stati Uniti nel Medio Oriente nell’era della presidenza Trump: contrastare l’influenza iraniana nel Levante. E non c’è solo la Repubblica Islamica: Rayburn si occuperà anche di concretizzare, secondo le parole di Nauert, “la nostra forte opposizione ad Hezbollah” che, insieme all’Iran, rappresenta la minaccia numero uno per Israele.
La fine delle ingerenze iraniane in Siria e la rivitalizzazione del processo di Ginevra rappresentano insomma la moneta di scambio che gli Stati Uniti offrono a Mosca affinché si possa aprire una nuova stagione di cooperazione e dialogo strategico. Lo si desume anche dalle parole del sottosegretario David Satterfield: non ci sarà “assistenza alla ricostruzione della Siria a meno che l’Onu (…) certifichi, validi che un credibile ed irreversibile processo politico sia in corso”. Traducendo: niente soldi a meno che Mosca non convinca Assad a sedere al tavolo di Ginevra, trattare con le opposizioni e, possibilmente, optare per una uscita di scena. “Questa è la via”, ha aggiunto Satterfield; “per avere ciò che crediamo il regime e i russi vogliono fortemente, vale a dire fondi internazionali” con cui procedere alla ricostruzione della Siria.
Non stiamo parlando di bruscolini. Secondo la stima dell’agenzia delle Nazioni Unite ESCWA, ci vorranno 388 miliardi per far rinascere il paese. Una cifra di cui né Damasco, né Mosca, né Teheran dispongono. Se Vladimir Putin non vuole rimanere con il cerino in mano, quindi, dovrà venire a patti con Washington, riportare a più miti consigli Assad, e soprattutto persuadere la Repubblica Islamica a fare un passo indietro.
È stato proprio il presidente russo, d’altra parte, ad auspicare una collaborazione con gli Usa nel vertice di Helsinki con Trump dello scorso giugno. “Il compito di stabilire la pace e la riconciliazione” in Siria, ha dichiarato in quella sede Putin, “potrebbe essere un esempio da manuale di questo lavoro congiunto”. E lavorare con Trump, com’è noto, significa sottostare alle sue condizioni. Checché ne dicano Assad e Ali Khamenei.