La politica, e chi di volta in volta le dà concretezza di governo, è libera – ci mancherebbe altro – di perseguire gli obiettivi che ritiene né verrebbe in mente a gente come me, che ha servito le istituzioni per una vita, di metterne in discussione i lineamenti.
E tuttavia quella stessa politica non può piegare indiscriminatamente alla sua volontà, spesso bizzarra e velleitaria, i suoi servitori più leali e capaci, gli stessi verso cui non lesina complimenti e blandizie a profusione negli interventi pubblici o nelle cerimonie ufficiali.
È il caso delle Capitanerie di Porto, una delle istituzioni che all’estero ci invidiano e che in patria si deve guardare, e talvolta difendere, da quel mondo che, incassato il consenso elettorale, sale in plancia e sembra dimenticare che, tradurre in pratica operativa le proprie decisioni può voler dire costringere gli operatori a contravvenire alle regole del gioco, quello che fa capo a leggi ben precise, condivise anche in ambito internazionale.
Le affermazioni del procuratore di Agrigento, riportate nell’intervista al Corriere della Sera del 23 agosto scorso sono emblematiche e dovrebbero essere oggetto di un’attenta riflessione. Dice il procuratore Patronaggio, a seguito di un sopralluogo sulla nave Diciotti con i 150 disperati a bordo che nessuno vuole: “Qualsiasi limitazione della libertà personale deve fare i conti con norme e regole della Covenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, della Costituzione, del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale. Non si scappa”. E poi: “Non posso intervenire nelle scelte operative dei ministri anche perché eventuali valutazioni penali sarebbero di competenza del Tribunale dei ministri”.
Ed allora dove credete che un magistrato vada a cercare le responsabilità? Se esiste come esiste una legge che dice che a bordo di una nave il Comandante dell’unità è l’unico responsabile di ciò che accade, come si crede di evitargli un’incriminazione per sequestro di persona, soprattutto se, come pare di intuire, egli non dispone di alcun ordine scritto del suo ministro, quello delle Infratrutture, o quello dell’Interno, che lo “copra” rispetto al rigore di una legge fin troppo chiara o alleggerisca il peso dei suoi comportamenti personali?
La verità è che nessun ministro può esonerarlo dalle sue prerogative mentre il ministro rimane sempre nascosto dietro la irresponsabilità politica dei propri atti.
In proposito, un caso occorso nel 2013, quello conosciuto come il caso Jammo, (dal nome del medico che vide morire annegati i suoi bambini e che denunciò l’episodio) può essere emblematico della insensibilità del vertice delle istituzioni verso i guai giudiziari in cui vengono precipitati gli operatori.
Nel caso in questione il Capitano di Vascello Manna, responsabile della centrale operativa di soccorso, in ossequio a direttive “verbali” mirate ad alleggerire il nostro carico di interventi in mare, trasferì a Malta la competenza di soccorrere un’imbarcazione in pericolo. Un gran numero di migranti perse la vita, anche per la consueta risposta truffaldina di Malta, cui competeva intervenire, e l’ufficiale italiano fu rinviato a giudizio per omissione di soccorso ancorché in acque di responsabilità maltese, senza che la politica abbia fatto sentire neppure la propria solidarietà al povero ufficiale in balia della magistratura senza uno straccio di documento di appoggio al suo comportamento, che sarebbe stato senz’altro diverso in assenza di indebita ed informale “ingerenza politica”.
Il vizio italico è vecchio, a memoria mi sento di andare al lontano 1991 quando il contingente dei Tornado italiani entrò in guerra contro Saddam dalla sera alla mattina, senza neppure un giorno di preparazione, o quando nella guerra dei Balcani nel 99, il generale Arpino, all’epoca Capo della Difesa fu processato per le bombe in Adriatico senza che disponesse di alcun documento formale che l’alleggerisse la sua, peraltro inesistente, responsabilità. O al povero generale Stano, comandante nel 2003 del contingente italiano a Nassirya, condannato in sede civile a indennizzare di tasca propria con 70 milioni di euro i familiari dell’attentato terroristico in cui perirono 17 soldati.
Gli esempi sarebbero veramente molti, troppi per non sollecitare una riflessione approfondita sulle difficoltà ed i guai cui vengono abbandonati gli operatori istituzionali quando il vertice politico si incammina in percorsi anomali rispetto al quadro giuridico esistente, quello per intenderci cui fa riferimento la magistratura quando, implacabile, come di recente ha ricordato il procuratore di Agrigento, procede nella individuazione delle responsabilità, cui alcuni “irresponsabilmente” si sottraggono ed altri, sistematicamente ed incolpevolmente, debbono soggiacere.