“L’esercitazione russa è un segnale molto forte del ritorno di Mosca come potenza nel Mediterraneo, sulla scia del successo militare senza scrupoli nel sostengo ad Assad, ed è una cosa a cui dovremmo pensare seriamente come Italia, come Unione europea e come Nato. Dovremmo tra l’altro tenere conto che dobbiamo ragionare, in termini di sicurezza europea, senza fare affidamento totale agli Stati Uniti. E malgrado tutte le difficoltà, dovremmo fare il possibile per tenere agganciata la Turchia e lavorare con i Paesi del Golfo, con l’Egitto e l’Arabia Saudita”. Parola dell’ambasciatore Stefano Stefanini, senior advisor dell’Ispi, già consulente diplomatico del presidente Napolitano e già rappresentante permanente per l’Italia alla Nato. Con lui, abbiamo parlato dell’esercitazione che nei prossimi giorni coinvolgerà 25 navi e 30 aerei russi nel Mediterraneo, del rafforzamento dell’asse sciita in Medio Oriente, dei possibili effetti su Libia ed Egitto, degli errori e dei successi commessi dal nostro Paese.
Quale è il vero obiettivo dell’esercitazione russa dei prossimi giorni?
Dopo due decenni di pressoché assenza nel Mediterraneo dalla dissoluzione dell’Unione sovietica, la Russia, che in passato è stata una potenza in queste acque, vi si è riaffacciata, soprattutto con l’impegno in Siria. Ora che Assad sta vincendo, l’obiettivo russo è dimostrare di essere di nuovo un player non trascurabile nel Mediterraneo, a differenza di ciò che è stato negli ultimi vent’anni.
Nel caso in cui all’esercitazione corrispondesse l’offensiva di Assad su Idlib, ultima roccaforte dei ribelli, intravede il rischio di un’escalation simile a quella dello scorso aprile, culminata con l’attacco di Stati Uniti, Francia e Regno Unito?
Washington, insieme agli alleati che parteciparono a quell’intervento, ha già fatto capire che un’offensiva delle Forze di Assad, sostenute da Russia e Iran, con l’uso di armi chimiche, non potrebbe essere lasciata passare senza una nuova risposta. Non è detto che il regime siriano ricorra a tali armamenti come successo in passato, anche se potrebbe farlo data la paura che questi ingenerano facilitando l’offensiva. Ad ogni modo, ove non vi fosse l’uso di cloro o armi chimiche, gli Stati Uniti non sembrano orientati a intervenire. Piuttosto, alcuni americani sono più preoccupati delle conseguenze umanitarie di un’offensiva su Idlib. Nella zona ancora controllata dai ribelli vivono circa 3 milioni di abitanti, e si stima che l’ondata di profughi verso la Turchia possa aggirarsi intorno al milione. Da parte dell’amministrazione Trump, tali preoccupazioni riguardano il caso in cui ciò agevoli la fuga di potenziali terroristi in altre aree. In ogni caso, la Russia mette le mani avanti, come a dire “ci sono anche io”, e lancia un avvertimento chiaro: non ostacolate il mio protetto che cerca di riportare ordine nell’area. Nel frattempo, si posiziona vistosamente e visivamente come potenze militare e marittima nel terreno di forza della presenza americana dell’area, la stessa da cui erano partiti i missili per l’attacco di aprile. Certo, l’uso di armi chimiche da parte dei siriani cambierebbe non poco il tutto, poiché darebbe legittimazione a un intervento militare punitivo americano
Comunque, il supporto russo lascia presagire che l’offensiva su Idlib sarà di successo. Con la vittoria di Assad, si consolida l’egemonia iraniana sul Levante?
Assolutamente sì. Si rafforza l’asse Siria-Iran (tra l’altro con un Iraq a governo a maggioranza sciita), che non può non preoccupare i Paesi del Golfo e anche l’Europa. In questo contesto, la Turchia rappresenta una variante imprevedibile, non perché sia sciita, ma perché con i rapporti tesi che ha con gli Stati Uniti da un parte, e con l’esigenza di evitare che le conseguenza umanitarie dell’attacco dei lealisti siriani siano tutte su Ankara dall’altra, è portata a venire a patti con il diavolo, e a trovare dunque qualche accomodamento con l’asse Siria-Iran che, fino a poco tempo fa, era nemico. In tale riallineamento risultano perdenti i Paesi sunniti e l’Occidente.
Come reagiranno tali perdenti? La vittoria di Assad, e dunque il rafforzamento dell’asse sciita, potrebbero incrinare l’altro asse, quello che lega Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele?
Innanzitutto occorre considerare che l’Arabia Saudita non è da sola. A parte il Qatar, il fronte sunnita può contare sugli altri Paesi del Golfo, sull’Egitto e sulla Giordania. Si tratta di un blocco arabo piuttosto sostanzioso e solido, che non ha altra scelta se non fare quadrato e far leva sul rapporto che, almeno a voce, gli Stati Uniti hanno promesso e che ha con l’altro grande alleato, Israele. Comunque, di fronte a un Assad vittorioso in Siria, che rinsalda rapporti con Iran, i sunniti del golfo e l’Egitto non hanno altra scelta che rafforzare la loro coesione.
Tornando agli interessi russi nel Mediterraneo, quali effetti potrebbe avere una maggiore presenza di Mosca su Paesi come Libia ed Egitto?
La politica russa si muove in maniera abbastanza sistematica, da vero giocatore di scacchi. Intanto, Mosca si è installata solidamente nel Mediterraneo orientale grazie all’asse con Assad e l’Iran. Chiaramente, le prossime tappe, qualora continuasse a trovare il vuoto lasciato dalla ritirata o dalla contrazione americana, sono Egitto e Libia. Il primo ha un forte interesse, anche per motivi energetici e di sviluppo, a rimanere agganciato all’Europa; è uno Stato che funziona. Il secondo è un Paese che si sta faticosamente mettendo in piedi, sempre ai limiti delle divisioni tra Cirenaica e Tripolitania, e tra tribù. Si tratta, in altre parole, di una realtà molto martoriata, dove l’unico Paese ad avere veramente influenza e ad essere realmente impegnato è l’Italia. Altri europei, anziché collaborare, pensano alla concorrenza e offrono così spazi alla Russia. Se ci saranno, Mosca li occuperà, sempre che abbia risorse a disposizione.
Ci spieghi meglio.
Pensiamo generalmente alla Russia come a una grande superpotenza. Eppure, il suo Pil ha le dimensioni di quello italiano e c’è il rischio che l’accumulazione di tutte queste iniziative porti a un over-estensione non sostenibile. Tra l’altro, anche Putin ha un’opinione pubblica interna di cui deve tenere conto.
Ha parlato della Turchia come di una “variante imprevedibile”. Ma quanto è profondo lo strappo tra Ankara e Washington?
È difficile dirlo, anche perché è difficile capire quanto lo strappo sia tra due personalità forti, Donald Trump e Recep Tayyip Erdogan, o quanto sia uno strappo obiettivo e geopolitico.
Certo, la presenza annunciata del presidente turco al prossimo vertice di Teheran con Russia e Iran sulla Siria sembra essere un segnale forte. Il futuro siriano si decide senza gli Usa?
Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Il formato regionale Russia-Iran-Turchia, che pende nettamente sul versante Assad-Teheran, si era creato intorno alla fine dell’amministrazione Obama anche per i cattivi rapporti tra quest’ultima e la Russia. Con l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, c’erano state aperture per invitare gli Stati Uniti a parteciparvi, ma poi sono stati gli stessi americani a tirarsi indietro. Il risultato è che la gestione regionale è rimasta nelle mani degli altri. Così, la Turchia non ha altra scelta che partecipare al formato con Russia e Iran, rimanendo tra l’altro il membro più eccentrico (poiché l’unico che non sostiene Assad) e dovendo barcamenarsi tra gli altri due. È proprio il caso in cui Ankara paga l’abbandono in cui è stata lasciata dagli Stati Uniti e dall’Occidente. Ed è difficile dare tutte le colpe a Erdogan (che sicuramente le ha, ad esempio sul piano interno) se la Turchia è costretta a cercare di sopravvivere nella giungla che è diventata il Medio Oriente.
In tutto questo, sembra esserci una grande assente: l’Unione europea. Perché?
Gli europei non sono del tutto assenti. Abbiamo parlato dell’Italia in Libia, e della Francia e del Regno Unito che affiancano gli americani in Siria. Ma l’Unione europea, è vero, è totalmente assente. Questo per due motivi: primo, perché non ha i mezzi e le strutture per svolgere una vera politica estera, se non dove Stati membri glielo consentono. È inutile prendersela con Bruxelles se non fa cose che i Paesi non gli permettono di fare. Federica Mogherini ha dei limiti in quello che può fare che non dipendono da lei, e quindi agisce dove le è consentito. Secondo, poiché dove forse avrebbe potuto cercar e di fare qualcosa di più, in Libia, non l’ha fatto. Ma l’Unione europea siamo noi.
E l’Italia?
Su argomenti come questi, il nuovo governo farebbe bene a ragionare in termini di continuità di politica estera, o quanto meno collegarsi a quanto fatto in precedenza poiché non è possibile improvvisare. Il nostro Paese ha agito con grande senso di responsabilità e attenzione in Libia. Siamo stati gli unici a non abbandonarla a se stessa e lo abbiamo fatto non solo per proteggerci dall’ondata di migranti. La nostra ambasciata è stata chiusa per un tempo brevissimo e poi siamo stati gli unici a riaprirla. Tutto questo rappresenta un capitale su cui investire. Certo, ci è mancata una visione complessiva, e ciò vale per gli esecutivi precedenti quanto per l’attuale. Occuparsi solo di Libia e tenerci ai margini di un impegno in Medio Oriente e in Siria rappresenta una visione geopolitica piuttosto miope.
Cosa avremmo dovuto fare?
Avremmo dovuto impegnarci di più in Siria, anche nella coalizione internazionale contro l’Isis. Lo abbiamo fatto partecipando alla sicurezza della diga di Mosul e ad attività di sorveglianza, ma senza un’azione militare vera e propria. È il classico atteggiamento di fare le cose a metà quando si richiede un impegno militare, un qualcosa che poi diminuisce il nostro peso. Avremmo potuto essere più coraggiosi. Abbiamo un italiano alla guida dell’Onu in Siria, Staffan De Mistura, che è stato persino viceministro degli Esteri. Avremmo potuto battere di più il chiodo e sostenerlo di più. In compenso, quello che abbiamo fatto in Libia (e lo riconoscono tutti, anche gli americani e i libici) è di grande spessore e di grande coraggio.