Dal terremoto della Chiesa cilena, brutalmente abbattuta dagli scandali di abusi su minori che ha visto coinvolti numerosi prelati, spesso nella veste di occultatori, continua l’opera di rimozione delle macerie messe in atto da Papa Francesco. Con l’obiettivo che si trasformi in un suo rinnovamento. Delle inedite dimissioni in blocco da parte dei 34 vescovi della conferenza episcopale cilena, di cui tre emeriti, già cinque di queste erano state accettate da Francesco. Oggi l’annuncio di altre due rinunce, quelle di monsignor Carlos Eduardo Pellegrin Barrera, vescovo di San Bartolomeo de Chillan, e di monsignor Cristian Enrique Contreras Molina, vescovo di San Felipe. Al loro posto, due amministratori apostolici “sede vacante et ad nutum Sanctae Sedis”, ovvero due figure transitoria, o almeno incaricate fino a nuova decisione, padre Sergio Hernán Pérez de Arce Arriagada per la prima diocesi e il vicario Giudiziale di Santiago de Chile Jaime Ortiz de Lazcano Piquer per la seconda.
Il sisma ecclesiastico è cominciato con il caso Karadima-Barros, ovvero con la vicenda dell’influente anziano sacerdote Fernando Karadima, riconosciuto nel 2011 colpevole di abusi su minori dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, e indicato come parte di un elenco di tre ecclesiastici colpevoli di crimini ma nonostante ciò promossi a incarichi di rilievo. Le vittime dell’alto prelato hanno direttamente accusato il clero di aver coperto le sue malefatte a lungo, visto che queste risalirebbero già da molti anni addietro ma le cui denunce sarebbero arrivate in Vaticano solo nel 2010, nonostante però fossero già arrivate all’allora arcivescovo di Santiago Francisco Javier Errazuriz Ossa, che in seguito chiese scusa alle vittime per non avergli creduto. La posizione di uno dei principali accusati era ricoperta da uno dei collaboratori più vicini a Karadima, ovvero monsignor Juan Barros, almeno fino al momento in cui Francesco accettò le sue dimissioni lo scorso giugno, dopo che in passato era stato lui stesso a farlo vescovo di Osorno.
La vicenda ha però portato lo stesso pontefice ad assistere a dure contestazioni di piazza organizzate proprio alcuni giorni prima del suo viaggio apostolico in Cile. Il Papa recatosi nel Paese dell’America Latina dovette leggere di molotov contro le parrocchie locali, attentati, opuscoli e striscioni inneggianti alla cacciata dei sacerdoti stupratori. Tanto da far parlare il segretario di stato Parolin di un viaggio “non semplice”. Dopo la visita nel Paese, sul volo di ritorno, rispondendo a una domanda sulla specifica questione ha spiazzato giornalisti e osservatori parlando del bisogno, per poter giudicare, di “evidenze”, visto che “non c’è l’ombra di una prova, sono calunnie”. Parole che hanno amareggiato fortemente le associazioni delle vittime, tanto da far nutrire il dubbio a Francesco su quanto lui riferito. Probabilmente infatti, secondo molti osservatori, il Papa venne consigliato male e ricevette informazioni depistanti. Così monsignor Charles Scicluna, arcivescovo di Malta e presidente del collegio sui delicta graviora della Congregazione per la Dottrina della Fede, assieme al sacerdote Jordi Bertomeu, venne inviato dalla Santa Sede all’interno del Paese con lo scopo di vagliare più approfonditamente la questione.
Risultato? Un dossier di 2300 pagine con oltre 60 testimonianze, abbastanza per far fare retromarcia al Papa fino ad arrivare, con un’umiltà e una semplicità che si potrebbe dire parecchio inusuale per un Papa, alle scuse pubbliche e sincere alle vittime. Affermazioni prima emerse da una lettera inviata ai vescovi cileni, dove parlo di “gravi errori di valutazione e percezione”, poi ripetute in un incontro diretto, guardandosi negli occhi, con tre delle vittime cilene in Vaticano, Josè Andres Murillo, Juan Carlos Cruz e James Hamilton. A differenza di Barros che rivolto alle vittime disse di non avere a disposizione prove dei fatti, e asserendo così che le accuse lui rivolte erano soltanto calunnie. Dopodiché, la chiamata di tutti i vescovi a loro volta in Vaticano, tre giorni di incontri riservati che hanno portato alle dimissioni in blocco, una vicenda unica nel suo genere. “Chiediamo perdono per i gravi errori e le omissioni commessi”, fu la dichiarazione del segretario generale della Conferenza episcopale cilena, che già un anno prima era stata messa ben in guardia dalla Santa Sede, ma che con questa inedita dimissione di massa sono riusciti di fatto a dimostrare, nello stesso tempo, unità della Chiesa nazionale, dolore per le drammatiche vicende e obbedienza al Papa.
Anche perché tuttavia le parole usate pochi giorni prima dal Papa, che aveva parlato di “mancanza di informazioni veritiere ed equilibrate”, non lasciavano ampi spazi di manovra. E visto che nello scandalo sono finiti, oltre all’arcivescovo di Santiago Riccardo Ezzati Andrello, anche il predecessore Errazuriz, uno dei membri del C9 di Papa Francesco che probabilmente verranno in futuro fatti fuori dal gruppo di lavoro che supporta il pontefice nella sua riforma della Curia, e che da molti additati come la persona che ha consigliato male Francesco prima del suo viaggio in Cile. “Ci mettiamo in cammino, sapendo che questi giorni di dialogo onesto hanno rappresentato una pietra miliare di un profondo processo di cambiamento guidato da Papa Francesco. In comunione con lui, vogliamo ristabilire la giustizia e contribuire alla riparazione del danno causato, per dare nuovo impulso alla missione profetica della Chiesa in Cile, il cui centro sarebbe sempre dovuto essere in Cristo”, era stata la dichiarazione diffusa durante l’annuncio della rimessa collettiva dei vescovi cileni. “Desideriamo che il volto del Signore torni a risplendere nella nostra Chiesa e ci impegniamo per questo con umiltà e speranza e chiediamo a tutti di aiutarci a percorrere questa strada”