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Blockchain e dark web. Quanto influiscono nel nostro lavoro?

Di Daniele Bailo
Blockchain

Siamo diventati schiavi del web molto prima di capire in che misura la tecnologia avrebbe cambiato le nostre vite. Con questa frase si apre il libro dello scrittore Andrew O’Hagan, che ha ritratto alcune delle figure più emblematiche della galassia digitale: Julian Assange, fondatore e guru di Wikileaks, e Craig Wgright, l’uomo dietro alla leggendaria figura di Satoshi Nakamoto, l’inventore e il teorizzatore dei bitcoin (nonché tra i creatori della tecnologia che ne è la base: la blockchain).O’Hagan usa una tecnica di scrittura: il gonzo journalism, ovvero effettua un’indagine giornalistica con tutte le competenze del caso, ma ne restituisce una versione così sincera da includere i propri dubbi e le proprie incertezze.Quella del digitale è certamente una dimensione affascinante, che si è innestata sulla dimensione reale della vita comportandone variazioni evidenti e irreversibili.

Ma è anche un fenomeno che nasce e si sviluppa in pieno trionfo del neoliberismo capitalista e globale, del nuovo colonialismo delle risorse e della piena libertà dei capitali e delle merci a scapito della libertà delle persone. Dimostrazione ne è l’evidenza che, come dice lo stesso O’Hagan: la nostra esperienza del web deve fare i conti con la percezione di ciò che il web sta diventando nelle mani di chi ne abusa. Questa tecnologia è ormai un sistema di sorveglianza, una fabbrica di menzogne, un congegno portatile di marketing, una bacheca aziendale , una piattaforma globale per dogmatici e fanatici, oltre che un pratico strumento per potenziare la propria vita. E complica il nostro concetto di che cos’è una persona.Nell’entusiasmo delle affermazioni che attribuiscono alla tecnologia (la blockchain) virtù intrinseche come la trasparenza, è il caso di fermare la macchina promozionale e provare a ragionarci.

È così vera l’affermazione che la blockchain sia uno strumento immodificabile e verificabile da chiunque? Come ogni tecnologia, ancor più se si tratta di una tecnologia digitale di programmazione, è accessibile, manipolabile, modificabile e soprattutto verificabile solo da chi possiede conoscenze e capacità per accedervi, manipolarla, modificarla, verificarla. Lo stesso Craig Wright (Satoshi Nakamoto) impattò con l’impossibilità di sostenere questa tesi. Se nemmeno la comunità digitale è in grado di essere d’accordo su un’azione compiuta sul più diffuso output (=prodotto evidente) di blockchain, com’è possibile che persone senza competenza possano affidarsi a tale tecnologia come l’assoluta garante della trasparenza? Credo sia una domanda più che legittima.Blockchain è una tecnologia rivoluzionaria le cui potenzialità sono oggi solo all’inizio, questo è certo.

Ma come lo sono molte altre tecnologie del nostro tempo, che dalla scienza e dal digitale ci illudono di poter intervenire sulla vita per correggerne le storture.Senza fare altri paragoni, basterà citare il nucleare per capire che il fattore decisivo per una tecnologia del progresso o del dominio sta in un solo fattore: quello umano. Blockchain, come e più di altre tecnologie, nasce nel dark web: percentualmente la maggior porzione dell’ambiente digitale di interrelazione tra utenti e tra macchine in rete, inaccessibile e impraticabile per la quasi totalità degli utenti medi. Non solo.Il dark web è anche una dimensione del digitale in cui a nessuna autorità esterna è permesso – e spesso, impossibilitato, dettare legge.Il principio della trasparenza tecnologica è acquisito da tempo per tutto ciò che riguarda il web promosso, guidato e riferibile alle istituzioni. Di più: in questa materia, non solo la legislazione italiana è tra le più avanzate, ma anche la letteratura tecnica è ricca e articolata, sia a livello statale che decentrato.Il tema della trasparenza si lega indissolubilmente a quello dell’autorevolezza e della fiducia. Il primo, deriva dal ruolo di garante di un organismo di rappresentanza ovvero di organizzazione sociale; il secondo attiene al sistema etico dei valori umani condivisi dai componenti di una società.

Esautorando la responsabilità di chi rappresenta i soggetti e affidando il dibattito etico al mero processo delle macchine digitali si sterilizza il meccanismo della dialettica che genera la fiducia e la delega. Affermare che la nuova umanità del lavoro si baserà, dunque, sugli utilizzi della Blockchain è una contraddizione, poiché l’umanità del lavoro non può essere affidata a un processo di elaborazione digitale. Soprattutto in un momento storico in cui la collettività si deve interrogare su cosa significhi per il singolo e la società il termine “lavoro”. Inoltre, la tecnologia blockchain non è l’unica; ma è di certo tra le più immature.Appellarsi alla trasmigrazione di interazioni chiave della partecipazione su dinamiche tecnologiche sterili, promuovendo processi di disentermediazione, significa decretare la morte del dibattito e delle istanze di umanità del lavoro in nome di principi meccanici alienanti.Correva l’anno 1944 quando venne pubblicata la dichiarazione di Filadelfia della Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Un testo che riaffermava, molto prima dell’avvento di internet, il diritto di tutti i popoli del mondo di non essere trattati e utilizzati come risorse strumentali da parte dei poteri costituiti.

Nelle premesse del documento sono riaffermati con forza principi che oggi, distratti dalla chimera delle novità tecnologiche (che nulla hanno a che vedere con l’innovazione) dovremmo rileggere alla luce delle ingiustizie globali, dei danni che una dissociazione tra profitti e lavoratori ha generato e, in generale, di cosa consideriamo dignitoso per la condizione della maggior parte delle persone che vivono e lavorano qui e ora, sul nostro stesso pianeta: il lavoro non è una merce; le libertà di espressione e di associazione sono condizioni essenziali del progresso sociale; la lotta contro il bisogno dev’essere continuata in ogni paese con instancabile vigore ed accompagnata da continui e concertati contatti internazionali nei quali i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, in condizioni di parità con i rappresentanti governativi, discutano liberamente e prendano decisioni di carattere democratico nell’intento di promuovere il bene comune.


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