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Burocrazia e cambiamento. La riforma necessaria

Di Francesco Grillo
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Ringrazio Mario Giro che, ieri, ha ripreso il mio intervento sui “tecnici di Stato” e lo ringrazio anche del tono che è – quasi completamente – senza polemiche. Quasi completamente perché non credo che si possa definire una “scorciatoia”, la proposta di mettere una riforma – finalmente efficace – della dirigenza pubblica e della pubblica amministrazione come prima battaglia di un qualsiasi governo che abbia la volontà di cambiare l’Italia. Non è una scorciatoia perché anche io parlo sulla base di esperienze (da esterno alla Pa, ma, da sempre, collaborando con la stessa e potendo fare esperienza di altri contesti in Italia e in Europa) diverse ma, forse, simili a quelle di Giro. Sono sicuro che anche lui condividerebbe il giudizio che è, in realtà, possibile raggiungere risultati con questa amministrazione, ma solo investendo una quantità di energie e di tempo che questo Paese non si può permettere.

Ringrazio, però, il già viceministro e sottosegretario agli Affari Esteri e ne approfitto, anzi, per suggerire alla redazione di Formiche.net di organizzare una riflessione sulla questione del rapporto tra politica e alta dirigenza. Tra una politica che avesse l’assoluto bisogno non solo di governare ma di cambiare e un’amministrazione che, indubbiamente, deve garantire la Costituzione, la legalità e, persino, le sue forme.

Mi limito, però, ad elaborare quanto detto da Giro con quattro rapide considerazioni.

La prima: è difficile e forse inutile dire se viene prima l’incompetenza dei politici o l’inadeguatezza rispetto a certe sfide dell’amministrazione. Sappiamo, però, per certo che i risultati per il Paese sono stati, finora, disastrosi. I numeri dicono che l’Italia, per distacco, è il Paese europeo che è cresciuto di meno negli ultimi trent’anni; quelli dell’Oecd dicono anche che nessuno è rimasto così uguale a se stesso, anche se – ed è un paradosso sul quale riflettere – la stessa Oecd ci riconosce di aver fatto più riforme degli altri senza però incidere; infine, per usare un parametro più vicino all’attività di alcuni tecnici, è diminuita la qualità delle leggi – come è stato rimproverato da diversi Presidenti della Repubblica – e ciò rende ancora più difficile modificare l’assetto dello Stato.

La seconda: servono competenze amministrative perché siamo in uno Stato di diritto, ma non solo. I ministeri in Germania o in Giappone sono, da tempo, aperti a chi ha le conoscenze (non le chiamerei più competenze) anche per indicare nuove strade usando le tecnologie che cambiano il mondo per trasformare processi e mezzi di produzione di beni pubblici. Può sembrare fantascienza ma se non lo facciamo tra poco saremo periferia di altri imperi.

La terza: è verissimo, come diceva Mario Giro, che molti politici sono colpevoli di non “aprire i dossier”, di non seguire le pratiche, di preferire le comparsate televisive. È vero, però, anche che i politici rischiano di non essere rieletti, mentre per i tecnici non esiste nessun vero incentivo a fare meglio. Se non quello della propria coscienza che, però, non può esserci sufficiente.

La quarta e a questo proposito, chiedo a Giro se non condivide tale assenza di meccanismi premiali. Basta andare sul sito della Presidenza del Consiglio per trovare gli stipendi dei dirigenti di prima fascia della struttura che è all’apice dello Stato: su ventidue dirigenti di prima fascia, venti hanno (praticamente) lo stesso stipendio (oscilla tra 197,263 euro e 207,463 euro); in particolar modo su ventidue dirigenti, tredici hanno la stessa identica retribuzione di “posizione” e quindici la stessa legata al risultato. È evidente che un meccanismo simile si riverbera sull’intera struttura scendendo verso i dirigenti di seconda fascia, i funzionari, gli altri ministeri, le stesse amministrazioni locali.

Non pensa Giro e, soprattutto, non pensano i dirigenti e i dipendenti pubblici che un’organizzazione improntata all’uniformità faccia star male, soprattutto, loro? Che danneggi i dirigenti di una Pa bastonata da politici frettolosi senza che ci sia un progetto? Che tolga obiettivi, motivazione, entusiasmo e, a volte, persino, dignità? Oltre a far male ad un Paese che non ha bisogno solo di essere governato (impresa già difficile) ma, persino, di essere radicalmente cambiato rispetto ad una rivoluzione tecnologica che costituisce una mutazione anche e soprattutto per Stati concepiti per dare stabilità in un altro secolo?

Su questo credo che l’Italia, la politica, i dirigenti dello Stato, gli intellettuali debbano interrogarsi con urgenza. Per trovare soluzioni ed approcci diversi dopo troppo riforme fallite. E non solo per “bastonare” o “contemplare la complessità” di problemi che sono, invece, risolvibili. Da ciò dovrebbe cominciare un qualsiasi progetto di cambiamento. Speriamo di cominciare noi.

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