Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Dalla Libia alla Cina, ecco dov’è in crisi la libertà religiosa (e come intervenire)

Di Francesco Gnagni
Via Crucis

Dall’Oriente al settentrione, da Pechino al Corno D’Africa, passando per la devastazione del Medio Oriente, la contesa della Libia, il fondamentalismo della Nigeria, l’intransigenza folle della Corea del Nord. Non si presenta affatto in maniera rassicurante la lista dei paesi in cui la libertà religiosa è ancora oggi gravemente violata, stando all’elenco presentato al Parlamento Europeo, e stilato nell’ambito del rapporto annuale sulle violazioni del diritto di libertà religiosa, dall’Intergruppo sulla libertà di religione Forb, assieme alla Fondazione Kessler, all’Università del Lussemburgo e al Cambridge Center for Religion and International Affairs.

IL RAPPORTO DELL’INTERGRUPPO AL PE PER LA LIBERTÀ RELIGIOSA FORB

“I musulmani Rohingya continuano a essere perseguitati in Myanmar, i cristiani continuano a essere condannati a morte per blasfemia in Pakistan, in India gli atei i non indù sono privati dei loro diritti passo dopo passo”, viene indicato all’inizio del testo. Ma sono solo alcuni dei più noti tra i casi di persecuzione di comunità religiose o di credenti in tutto il mondo, visto che la lista dei paesi con il bollino rosso è lunga e piuttosto articolata. “Le nostre convinzioni occupano il cuore stesso della nostra umanità”, è la motivazione dell’Intergruppo al parlamento europeo, con un’assunto sorretto dall’idea, del tutto legittima e condivisibile, che “dobbiamo mettere le persone di tutto il mondo prima della nostra finanza e interessi politici”.

LA LIBIA E IL RUOLO CONTROVERSO DELLA FRANCIA DI MACRON

“Mentre sono stati compiuti alcuni progressi per riconquistare il territorio dalle mani di Daesh, torture diffuse, uccisioni e disprezzo generale per la fondamentale piaga dei diritti umani in Libia”, si spiega ad esempio parlando del territorio libico, su cui si stanno scaldando le cronache degli ultimi giorni, ma dove viene anche spiegato che “i governi rivali libici concordano sul cessate il fuoco”, in particolare “dopo i colloqui in Francia”. Il primo ministro Fayez al-Sarraj e il generale Khalifa Haftar si sono incontrati a Parigi martedì, come ben noto, specialmente per via del commento a margine del presidente francese Emmanuel Macron. Secondo diversi osservatori, infatti, Parigi in questi anni, dalla fine del regime di Gheddafi in poi, avrebbe costantemente portato avanti il proprio rapporto privilegiato con il comandante libico supportato dal confinante Egitto. L’incontro francese, nonostante il tentativo dell’Eliseo di calmare le acque giustificandolo con l’assicurazione di una vicinanza a Roma e agli altri paesi Ue, sembrerebbe prefigurare la volontà di Macron di mantenere attivo un canale privilegiato con il paese nord-africano. Viatico, secondo alcuni corrispondenti e osservatori, addirittura segreto.

Azione diplomatica e sostegno concreto sono così le due forme con cui l’Ue fornisce, in maniera ufficiale, assistenza al governo libico di Al Serraj, puntando al ripristino delle infrastrutture pubbliche e intergovernative e sostenendo le missioni di sicurezza e difesa, ovvero Sophia e Eubam. Attraverso 37 progetti in sei aree, l’Europa ha ha fornito circa 120 milioni di euro in sostegno bilaterale nel 2017, e le importazioni aumentate a 11,6 miliardi nell’ultimo anno, a differenza della diminuizione dell’85% dal 2012 al 2016, dopo la caduta cioè di Gheddafi. In questo, sostiene il gruppo, una tavola rotonda sui diritti umani e le libertà religiose potrebbero aiutare a far progredire il processo politico verso una “sua transizione democratica”. Evento che “potrebbe essere tenuto nel quadro del Quartetto della Libia, invitando la Lega degli Stati arabi, l’Unione africana e le Nazioni Unite”, con l’obiettivo di mettere a punto un piano in cui coinvolgere anche i leader religiosi locali.

LA DIFFICILE SITUAZIONE DI NIGERIA, CENTRAFRICA, SOMALIA E SUDAN

Del tutto critica la situazione in molte aree dell’Africa, come la Nigeria, che non presenta un’allerta massima ma che, considerato il fatto che rappresenta un partner commerciale importante per l’Europa, visto che il il 24,3% del commercio totale nel Paese è legato al Vecchio continente, mostra comunque segnali allarmanti. La situazione dei diritti umani in Nigeria si è infatti “deteriorata nell’ultimo anno” e “non ci sono stati sviluppi positivi” sul tema della libertà religiosa, dice il report. I membri della minoranza sciita, come anche le comunità cristiane, “continuano a subire vessazioni e discriminazioni, e Boko Haram continua a terrorizzare i cittadini”, per cui “la violenza settaria persiste e lo spazio per la società civile si sta irrigidendo”.

Le accuse contro i servizi di sicurezza parlano di uccisioni extragiudiziarie, torture e arresti arbitrari, e l’idea è quella di collaborare con funzionari governativi per monitorare nove tra gli stati del nord in cui è osservata la legge della sharia, con l’obiettivo di garantirne un’applicazione “non in conflitto con le norme internazionali sui diritti umani”, recita il testo. Creazione di centri giovanili, facilitare il dialogo interreligioso attività neutrali, come sport, teatro o arte, potrebbe essere ad esempio alcuni dei metodi utilizzabili.

Nella Repubblica Centrafricana, invece, dal 2017 il numero di sfollati interni è aumentato di oltre il 70% per mano di attacchi di gruppi armati in tutto il paese, e “la povertà estrema e la mancanza di servizi di base esacerbano ulteriormente le condizioni di vita”. In questo l’Europa, “dovrebbe offrire ulteriore sostegno alla piattaforma interconfessionale”, creata “da tre delle personalità religiose più anziane della Repubblica Centrafricana e finanziata dall’Ue” con “l’obiettivo di ridurre le tensioni e facilitare la costruzione della pace”, e lo si potrebbe fare ad esempio invitando i leader religiosi a Bruxelles o finanziando la formazione di mediatori interreligiosi.

Poco distante la condizione in Somalia o Sudan. Nella prima, “uno stato fragile” dove “il governo federale di transizione in vigore esercita un controllo limitato sul paese, data la mancanza di risorse e la presenza di Al-Shabaab”, per i membri dell’integruppo europeo l’Ue dovrebbe “incitare il governo somalo a modificare la Costituzione provvisoria per stabilire un vero diritto alla libertà di pensiero, coscienza, religione o credo”, visto che l’attuale “proibisce la propagazione di qualsiasi religione all’infuori dell’islam“. Nel secondo, invece, paese in cui le autorità nazionali “hanno allentato le loro politiche nei confronti delle minoranze religiose – come dimostra il permesso dato alla Chiesa anglicana di nominare il suo primo arcivescovo nel paese”, Ezekiel Kondo, presentato nella nuova provincia anglicana del Sudan dall’arcivescovo di Canterbury Justin Welby – resta tuttavia vigente un’interpretazione legale della libertà di parola “legata alla blasfemia o al tradimento”. Come testimoniato dal missionario e regista ceco Petr Jašek, arrestato a dicembre 2015 con accuse di vari crimini, tra cui cospirazioni contro lo stato e spionaggio.

IN SIRIA E MEDIO ORIENTE LA SITUAZIONE RESTA CRITICA

In Siria, poi, la situazione è notoriamente ben tragica, visto che da marzo 2011 hanno perso la vita oltre 400 mila siriani e oltre un milione sono stati feriti, e dove circa 6,1 milioni di persone sono fuggite dalle loro case e più di cinque milioni sono stati costretti a rifugiarsi nei paesi limitrofi. In tutto ciò, l’Ue e i suoi Stati membri hanno mobilitato oltre 10,6 miliardi di euro dall’inizio del conflitto, compresi oltre 753 milioni di euro solamente per gli aiuti umanitari, considerato che l’Europa è il quarto partner commerciale del Paese, con 571 milioni di euro, dopo, Russia, Turchia e Cina.

La necessità del vecchio continente sulla questione siriana è senza dubbio quella di delineare con chiarezza il suo ruolo in Siria. Quello di aiutare a ripristinare e ricostruire il suo patrimonio storico e i suoi luoghi di culto potrebbe essere un obiettivo primario, a cui andrebbe però destinato più denaro, magari creando un fondo comune con l’Unesco centrato proprio su questo specifico punto. Visto poi che la quasi sconfitta di Daesh, “uno degli spiragli di speranza all’interno del conflitto siriano”, lascia spazio alla cooperazione sulle libertà religiose, come spiega il gruppo, nonostante il fatto che “gruppi terroristici come Al Qaeda hanno ancora un forte punto d’appoggio”.

In Iran, dove dopo la revoca delle sanzioni nel 2016 gli scambi sono aumentati in modo significativo, con le importazioni dall’Ue in crescita del 345%, ma dove anche la decisione di Trump di introdurre sanzioni e di ritirare gli Stati Uniti minaccia l’esistenza del piano d’azione comune, che significherebbe una nuova caduta in una crisi economica all’interno dell’Iran, l’Europa “dovrebbe chiedere il rilascio immediato di tutti i prigionieri di coscienza in Iran e continuare a sostenere l’abolizione della pena di morte, specialmente in relazione alla blasfemia e al dissenso”, si scrive. Condannando la violenza per motivi di religione o convinzione “in maniera strutturale” e “anche attraverso l’attuazione di sanzioni”, visto che quelle relative ai diritti umani rimangono tuttavia ancora in vigore.

In Iraq, invece, dal 2014 al 2017 si calcola che l’Ue ha stanziato 650 milioni di euro in iniziative umanitarie e di sviluppo, mentre in Afghanistan, negli ultimi 16 anni, sono stati 3,66 miliardi gli euro utilizzati a livello europeo per sviluppo e aiuti, facendo dell’Europa il quarto donatore nel paese a livello mondiale. Nonostante ciò, lo stato islamico nella provincia di Khorasan e altri gruppi ribelli continuano ad attaccare e uccidere leader di minoranze religiose, per questo si parla della necessità di presentare al governo afgano una strategia che richiedaprotezione per i sikh, gli indù e altri gruppi. Basta pensare al recente attacco terroristico che a Nangarhar il 1 luglio scorso ha ucciso 17 sikh e indù, una “lotta contro i politeisti”.

Mentre per il Pakistan, dove dopo le elezioni l’Ue è intenzionata a collaborare con il governo uscente per spingere alla vera attuazione del piano d’azione nazionale per i diritti umani promosso all’inizio del 2016, la realtà della situazione è che questo piano non viene attuato, in seguito alla corruzione diffusa nel paese e all’ambivalenza dell’esercito. Senza considerare poi il tema della necessità di rimuovere le leggi sulla blasfemia che mantengono almeno 19 persone attualmente in carcere, nel braccio della morte.

LO SCOGLIO DELLA CINA E IL FINTO MIGLIORAMENTO DELLA COREA DEL NORD

Per quanto riguarda infine la Cina, verso cui nel 2017 l’Ue è stato il maggiore importatore, per ben 374 miliardi di euro, si spiega che, nonostate l’incontro di Pechino del luglio scorso sul tema dei diritti umani, le preoccupazioni sul deterioramento della situazione nella provincia dello Xinjiang restano vive: si parla dell’aumento della presenza di polizia e sorveglianza nella provincia, e di politiche volte contro la popolazione uigura.

Allo stesso tempo però, la Cina rappresenta un mercato importante per le aziende con sede nell’Ue, relazioni che si potrebbero sfruttare per un dialogo sul tema dei diritti umani, come quello della libertà religiose. Vari scambi culturali sono infatti già attivi, e tra questi rientrebbe la volontà di premere per la sensibilizzazione religiosa. In ciò, “la temerarietà della società civile in Cina è il suo unico segno di speranza”, dice il rapporto: “Nonostante la crescente oppressione dello stato, la sorveglianza di massa e la censura, le sparizioni e la detenzione indefinita di molti attivisti e avvocati per i diritti umani, gli attivisti cinesi continuano a lottare per i diritti umani dei loro concittadini”.

Non è infine, per ultima, migliore la situazione della Corea del Nord del dittatore Kim, dove “attualmente non ci sono segnali che la leadership della Corea del Nord metta fine alle gravi violazioni dei diritti umani subite dal suo popolo per decenni”. Anche se il paese si differenzia dalla Cina per la quantità nettamente inferiore di scambi, 0,4% del commercio nazionale con la Ue nell’ultimo anno, viste le sanzioni europee sul nucleare. Tuttavia, nel report si parla della necessità di dare vita una taskforce sui diritti umani, unico modo di revocare le sanzioni, che comprenda anche una tabella contro la tortura e “altri trattamenti crudeli o inumani o degradanti”. Ma con gli Usa di Trump, ad esempio, “le relazioni sembrano migliorare notevolmente” dopo il “vertice di Singapore”. Bisognerà fidarsi?

×

Iscriviti alla newsletter