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Dentro lo Stato e la Democrazia – Ripartire dal lavoro e dalla formazione

Quando dico del necessario ritorno alla realtà mi riferisco alla capacità di ritornare a guardare dentro i processi storici, per guardare oltre. Oggi, nei diversi ambiti della convivenza, sono in atto trasformazioni tali che, generando tensioni, fanno del disagio e della paura, così come dell’esacerbarsi delle conflittualità, fenomeni che caratterizzano direttamente la nostra quotidianità.

Mi concentro, in questa parte di riflessione, su due ambiti che, tra gli altri, ritengo fondamentali: il lavoro e la formazione. Ambiti ai quali la riflessione politica, per un agire pertinente, deve guardare con grande attenzione.

Scrive Massimo Gaggi (2018, pag. 53): Se negli ultimi anni si sono succedute le analisi e le previsioni sempre più allarmate sul gran numero di posti di lavoro che verranno inghiottiti dall’automazione non solo nei mestieri manuale ma anche (…) in quelli intellettuali, c’è ancora un buon numero di tecnologi ed economisti convinti che non sia il caso di drammatizzare: i lavori che scompariranno per effetto del progresso tecnologico verranno sostituiti, com’è avvenuto sempre nei secoli scorsi, da nuovi mestieri in settori dell’economia che nascono dal nulla proprio grazie alle innovazioni che producono insieme scossoni sociali ma anche effetti straordinariamente benefici.

Che vecchi mestieri lascino il posto a quelli nuovi è un fatto naturale e inevitabile. Il tema, rispetto alla coesione sociale e alla tenuta dei sistemi di convivenza, è governare politicamente la transizione. In questo tempo della storia umana, più che in altri, la forza dell’innovazione riduce i tempi della possibilità di “formazione permanente”, nuovi contenuti s’impongono, e  vi è il rischio concreto che i “disoccupati 4.0” non riescano a ricollocarsi professionalmente e a dare dignità alle loro vite attraverso il lavoro.  Per questo, non potendo fermare l’innovazione, è centrale l’individuazione politica di strumenti di protezione e di regole adeguate.

Secondo Kai.Fu Lee, scrive Massimo Gaggi (2018, pag. 54) le cose più serie (…) riguardano sempre (…) l’intelligenza artificiale. Che “farà per noi cose straordinarie (…). Scomparirà una quantità enorme di posti di lavoro e non creda a chi dice che ne nasceranno altrettanti di nuovi in altri campi: quello che è accaduto nelle fasi precedenti della rivoluzione industriale stavolta non si ripeterà. Un problema sociale micidiale se non corriamo per tempi ai ripari. Inventando nuovi mestieri, creando protezioni sociali, ma anche cambiando l’etica del lavoro che abbiamo oggi: quella che è stata plasmata da una rivoluzione industriale ormai alle nostre spalle.

Prosegue Gaggi, richiamando ancora Kai-Fu Lee: (…) quanto accaduto nelle fasi precedenti della rivoluzione industriale – tecnologie che hanno creato molti più lavori di quelli distrutti – stavolta non si ripeterà. Questo perché per sua natura l’intelligenza artificiale tende a rimpiazzare quasi tutte le funzioni umane, siano esse cognitive o manuali. Restano fuori alcuni spazi limitati: quelli dei mestieri creativi e quelli che dei lavori che richiedono empatia. Secondo lui è intorno a queste due aree che l’umanità dovrà riorganizzare la sua attività lavorativa, ma andranno rivisti i meccanismi di distribuzione della ricchezza e anche la concezione del lavoro: quella del pieno impiego, (…) che si è consolidata nell’età delle fabbriche brulicanti di operai, non tiene più.

Rispetto al lavoro siamo, dunque, in una metamorfosi sistemica. Cambia l’intero impianto del lavoro, dalla sua etica, dignità, forme, fino alle relazioni industriali. E il tutto, beninteso, va inquadrato nel ripensamento complessivo di quel “welfare state” che non regge più nell’attuale contesto storico. Ci vogliono nuove e adeguate mediazioni tra i compiti della politica, di costruzione di convivenza e di mantenimento della coesione sociale, e l’irrompere consolidato dell’innovazione che, in quanto tale, mette in discussione (alcuni dicono in pericolo) gli equilibri consolidati e problematizza le certezze, le sicurezze; si pensi, richiamando Kai-Fu Lee, al concetto di pieno impiego. Se, come sostiene Kai-Fu Lee, dovremo sempre più puntare su mestieri creativi e che richiedono empatia, la sfida è straordinariamente interessante e chiama in causa dinamiche che ben poco hanno a che vedere con quelle di un mercato del lavoro che eravamo abituati a vivere.

In tale prospettiva, la formazione acquista un ruolo sempre più decisivo. Fin dalla scuola elementare, infatti, si tratta di preparare i giovani ai “segni dei tempi” in metamorfosi, abituandoli alle complessità della realtà dinamica. Ci vogliono, al contempo, metodi innovativi e contenuti pertinenti.

Concentriamo la nostra riflessione sull’università, sull’alta formazione. Ultimo passaggio prima dell’ingresso nel mondo del lavoro, l’università ha il doppio compito di portare dentro di sé sia l’universalità del sapere (dunque, di non “spezzettare” il sapere in mille rivoli non dialoganti) sia la pluralità del sapere stesso (la cultura è sempre integrazione di apporti differenti, è pluri-versum). L’università, in particolare oggi, si trova di fronte a una sfida fondamentale e difficile.

Siccome l’innovazione corre troppo velocemente, ciò che è possibile fare in termini di formazione è educare al pensiero critico e, il più possibile, a “specializzazioni aperte”, garantendo un “sapere spendibile” e, allo stesso tempo, capace di giudizio storico, di comprensione dei mondi che evolvono. Il metodo di formazione non può che essere “transdisciplinare”, lavorando affinché che le singole discipline si ritrovino sulle frontiere di ogni altra, contaminandosi per fecondarsi. Se guardiamo alle prospettive del mercato del lavoro, occorre investire molto sul fattore umano nel lavoro, sulla spinta alla creatività e all’empatia; è importante che i giovani, a partire dall’università, si facciamo ”innovatori nell’innovazione”, acquisendo – contestualmente – saperi fondamentali, in dialogo fra di loro, e competenze di trasformazione, solo in apparenza distanti dal loro specifico.

Tale sfida dell’università, oltre che essere importante per l’università stessa, agisce  sulle possibilità di una “cittadinanza critica” (non solo attiva), anche attraverso il lavoro.



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