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Dentro lo Stato e la Democrazia. Per un nuovo pensiero politico

Come notavo, richiamando le parole di Hannah Arendt del 1959, quando alla politica viene richiesto  se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata, siamo in tempi bui.

Senza voler essere pessimisti, in tempi di radicale e profonda metamorfosi, il dato che va evidenziato, e che dovrebbe farci riflettere, è che ci troviamo immersi nel  profondo disagio nelle nostre società, causato da diseguaglianze crescenti e non più accettabili, a loro volta causate da scelte politiche discutibili nel quadro generale di una globalizzazione senza regole globali.

Scrive Ian Bremmer (2018, pagg 18-19): La globalizzazione – il flusso transfrontaliero di idee, informazioni, persone, capitali, beni e servizi – si è tradotta in un mondo interconnesso dove i governi nazionali hanno una capacità sempre più limitata di proteggere le vite e il livello di benessere dei cittadini. Nell’età digitale, i confini non hanno più il significato che ad esso attribuiscono i cittadini. Per molti versi, non esistono quasi più. Il globalismo – la teoria secondo la quale l’interdipendenza creata dalla globalizzazione è benefica per l’insieme della società – è l’ideologia delle élite. I leader politici dell’opulento Occidente sono stati i più convinti assertori del globalismo, favorendo la creazione di un sistema che ha messo in movimento idee, informazioni, persone, denaro, beni e servizi attraverso le frontiere  a una velocità e su una scala senza precedenti nella storia umana.

In tale contesto, inevitabilmente, si trasforma il quadro dell’offerta politica; qualcuno parla di “nuovi barbari” al potere, non solo in Italia, ma bisognerebbe dire, con onestà intellettuale, che i nuovi movimenti politici sono il frutto della difficoltà, ampiamente dimostrata, di mantenere una coesione sociale. Possiamo criticare nel merito le proposte di chi ha preso il potere ma non possiamo dire che coloro che oggi rappresentano i cittadini siano venuti da un altro mondo a occupare le Istituzioni; abbiamo la responsabilità di prendere atto che, complice il fallimento dei partiti e delle coalizioni classiche (in maniera ormai diffusa nel mondo), il consenso si è fatto “imminente”, lavora sulla sopravvivenza delle persone e delle comunità umane. Se coloro che sono stati sconfitti avessero “intercettato progettualmente” ciò che stava accadendo, oggi ci troveremmo a raccontare una situazione del tutto diversa. D’altronde, non vale neppure la giustificazione che fosse difficile capirlo o che nessuno lo avesse detto; già nel 1984, Vincenzo Scotti così parlava al Congresso del suo Partito, la Democrazia Cristiana: Siamo di fronte ad un passaggio, ad una rivoluzione, nella quale la società rivendica la sua autonomia rispetto allo stato; si articola e ricerca un suo proprio ordine. Viene a maturazione, e quasi si compie, quel processo che, iniziatosi sul piano economico agli albori della industrializzazione, si è ora esteso a tutti i campi della vita sociale e civile. Accanto ai due protagonisti principali della società industriale, la borghesia produttiva e il lavoro salariato, irrompono ormai, sulla scena del mondo, nuovi soggetti, movimenti, organizzazioni, nuovi modi di aggregarsi, di comunicare, di fare cultura, nuovi costumi, nuovi popoli e nuovi moduli dei popoli di unirsi, di progettare il futuro. E tutto questo è avvenuto non per impulso e forza della politica, non sotto la guida degli Stati, ancora così chiusi nella loro origine nazionalista, ma per un impulso e una forza che scaturiscono dal profondo delle stesse società. Unite, ormai, anche dai grandi movimenti etici, spirituali e religiosi, l’ecologia, la pace, lo sviluppo, i diritti umani – che attraversano le frontiere dell’umanità, unendole o separandole in una logica del tutto meta-politica e meta-statuale.

Se la società sta rivendicando la sua autonomia, processo del tutto naturale in un contesto dinamico, l’impressione di chi scrive è che ciò stia accadendo in maniera non più lineare e causale. Non si vedono comunità umane che si muovono all’interno di comunità politiche che dialogano, anche in un confronto aspro; non c’è più, dal crollo delle ideologie, una corrispondenza tra offerta politica e classi sociali. Perché non ci sono più le classi.

Poi c’è l’illusione, che continua, di una politica de-legittimata che vorrebbe ancora rappresentare l’interesse generale, non comprendendolo in quella che Scotti chiamava rivoluzione. Ogni periodo storico, infatti, dà vita a un “proprio” interesse generale, a forme di convivenza, a fenomeni ciclicamente nuovi – e al contempo antichi quanto l’uomo – che ne rappresentano lo “spirito dei tempi”.

Mi soffermo brevemente su ciò che vediamo oggi. Si nota, a livello internazionale,  il tentativo di formare una “internazionale dei sovranisti”; basti guardare alla proposta di “The Movement” di Steve Bannon, in chiara contrapposizione con il “mondo di Davos”. È in atto, come nota Ian Bremmer (2018) uno scontro globale noi contro di loro.

Riprendiamo alcune dichiarazioni di Bannon (Libero, 4 luglio 2018): L’ idea di avere confini forti e una leadership forte (…) sta avanzando ovunque. Questa è una visione che, inevitabilmente, si scontra con la fase di globalizzazione che stiamo vivendo, “giustificando” le diverse forme di “exit”. Si pone il tema dei limiti oggettivi, e strutturali, della globalizzazione e del ritorno del potere all’interno di confini statuali. Emerge un “giudizio storico” che appare anti-storico, laddove – dalle migrazioni all’infosfera – i processi “superano” di fatto i confini, li eliminano in essenza e in sostanza.

Con riferimento alla situazione italiana, Bannon dice (intervista citata): Credo che ciò che Lega e 5 Stelle hanno fatto sia storico: unire nord e sud, sinistra e destra, populisti e nazionalisti nel primo vero governo di unità del mondo. È interessante notare che Bannon considera il laboratorio italiano come esempio per il mondo; è un ritorno al popolo e alla dimensione nazionale, “confinata”, sovrana.

Ancora  sostiene Bannon (intervista citata): Ogni populista e ogni nazionalista in Europa dovrebbe individuare i propri nemici. Le persone come Soros si preoccupano solo di una cosa: il potere e quindi la possibilità di allinearlo a vantaggio delle loro tasche. Lo ha dichiarato lo stesso Soros in una delle sue infami interviste. Non gli interessano le conseguenze sociali dei suoi progetti, lo fa solo per i soldi. Chiunque sia il “nemico”. il punto richiamato da Bannon è rimettere al centro la società, i suoi problemi reali, il futuro della vita dei cittadini. Siamo nel pieno dello scontro “noi contro di loro”.

Bannon (intervista citata) parla di Putin, dicendo che non è un “bravo ragazzo” ma sottolineando che:   Le élite europee e americane odiano Putin perché è un nazionalista che ha abbracciato la Chiesa ortodossa e ha il sostegno della società civile russa. Ciò è contrario a tutto ciò in cui credono le élite. La missione della “internazionale dei sovranisti” è di guardare a chi rafforza ogni “causa nazionale” contro il globalismo, ideologia delle élite.

Bannon (intervista citata) disegna il “sovranismo” a partire dall’Europa: Non necessariamente si deve parlare di caduta dell’ Ue. Si deve invece parlare degli Stati-nazione e dei loro governi che lavorino nel migliore interesse della loro gente. Se la Commissione europea e il Consiglio dei ministri vogliono cambiare l’ Ue, possono farlo e probabilmente così facendo la salverebbero. Ma ora sono intenzionati soltanto a creare un’ Europa a loro immagine. Inoltre, non vedo come le persone alla fine possano ottenere la loro libertà e la loro indipendenza, mentre hanno un’ unione non politica fondata esclusivamente su un’ unione monetaria. Penso che alla fine gli Stati nazionali dovranno tornare a recuperare la loro moneta. Il Regno Unito non ha adottato l’ euro e, di conseguenza, ha mantenuto il controllo monetario e fiscale. È un punto fondamentale.

È sostenibile, per il futuro del mondo, una visione politica come quella tracciata da Bannon ? Tale visione rappresenta una nuova frontiera per la politica ?

Qui si apre un tema di straordinaria rilevanza. Se, da un lato, sembra impossibile che possano tornare indietro le lancette della storia, dall’altro lato è evidente che non possiamo continuare a vivere in un contesto globalizzato con i problemi, soprattutto le diseguaglianze, che esso presenta, non da oggi. Nota lucidamente Ian Bremmer (2018, pag. 14): Oggi, la parola l’ordine è disuguaglianza. Abbiamo sempre saputo che il mondo era un posto pieno di disparità, ma la maggior parte delle élite mondiali credeva, con ogni evidenza, che la globalizzazione fosse la soluzione, non il problema. Intanto, mentre le élite si riunivano per deliberare, tra la gente cresceva la frustrazione. È diffuso, e va radicandosi nei cittadini, il dubbio espresso da Bremmer (2018, pag. 18) che lo Stato non sia più in grado di proteggerli, di fornire loro l’opportunità di migliorare la propria condizione e di aiutarli a essere padroni del proprio destino.

La mia tesi è che sia insostenibile un contesto nel quale la politica si fondi sulle idee di “contro” e di “prima”.  Credo, invece, che un nuovo pensiero politico  possa nascere soltanto nella profonda conoscenza dei processi storici in atto e che debba porre in essere mediazioni pertinenti, nuovi sistemi di protezione e adeguate regole di governance globale.

Mai come oggi, infatti, la politica deve calarsi nella realtà e capire, con “realismo visionario”, che le diseguaglianze sono conseguenza di scelte sbagliate, di classi dirigenti che hanno pensato, e che ancora pensano, che lo sviluppo possa nascere attraverso formule algoritmiche, in qualche modo prescindendo dalla realtà “carne e sangue” delle comunità umane. Ne discende che la responsabilità delle classi politiche e istituzionali fa il paio con quella delle università, delle imprese, dei centri di ricerca, dei think tank. Per immaginare un nuovo pensiero politico, allora, non si può che partire da una rinnovata alleanza tra società, scienza e innovazione, economia reale e mercati finanziari, politica e amministrazione.

Torno brevemente, per discuterne, sulle parole “contro” e “prima”.

Se c’è un “contro” c’è anche un nemico. È in questa logica che, oggi, i  “sovranisti” si muovono, in un antagonismo che vorrebbe sostituire un ordine a un altro, ponendo le comunità umane e le loro necessità al primo posto; se questo è giusto, ed è inevitabile che si realizzino strappi anche profondi sulle grandi questioni globali nel tempo che viviamo, la logica del “contro” è precaria di fronte alla potenza delle società aperte e alla realtà di ciò che accade. Il nemico non può essere la globalizzazione, certamente “bisognosa” di regole, ma la cultura élitaria del globalismo, quella che si ostina a leggere la realtà dai palazzi del potere, dai salotti buoni, dai centri borghesi e a interpretarla secondo schemi che non tengono conto del “sentimento” diffuso. Non parlerei comunque di nemici ma della necessità, non più eludibile, di tornare nella realtà, nelle sue contraddizioni, nelle sue complessità.

Al “contro” si affianca la logica del “prima”. Anche in questo caso, in una scelta giusta di valorizzazione delle peculiarità e dei bisogni di ogni comunità umana, formule come “Prima gli italiani” o “America first” assumono un significato che solleva, con giuste rivendicazioni, un substrato di rabbia e di disagio che, molto spesso, si riversa contro l’altro, solo per il fatto di non appartenere alla nostra comunità nazionale, di provenire da altri Paesi, da altre culture. Tutto questo, che con una inaccettabile facilità chiamiamo razzismo, si somma alla crescita della cultura della paura e determina – politicamente – quel “prima etnico” che porta dentro di sé una cultura dell’esclusione e dei muri di protezione, intellettuali e fisici.

Tra “prima” e “contro”, in una globalizzazione diseguale e in un disagio sociale crescente, compito della politica è di ripensarsi profondamente, per rifondarsi. La politica ha il doppio problema del pensiero e dell’ agire, della prassi (verso quale Stato, verso quale Democrazia ?). Bisogna continuare a decidere nell’interesse generale, prendere iniziative, non si può stare fermi in attesa di tempi migliori; oggi come oggi, io credo, dobbiamo prestare molta attenzione a ciò che l’offerta politica ci propone e, cogliendo i rischi ma anche le potenzialità “in nuce”, aiutare la metamorfosi della politica che deve aiutare a cogliere e a governare le metamorfosi del mondo.  Solo ad esempio, il tema della sovranità nella globalizzazione è del tutto reale, tanto quanto la rappresentatività nei nostri sistemi democratici.



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