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Ecco perché sembra finito l’equilibrio tra Iran e Usa in Iraq

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A seguito della decisione del presidente americano Donald Trump di uscire dall’accordo sul nucleare con Teheran (Jcpoa), la “coabitazione UsaIran” in Iraq, finora fondata su un governo di compromesso guidato dallo sciita Haidar al-Abadi, sembra essersi conclusa.

Dopo le elezioni parlamentari irachene del 12 maggio, sia Washington che Teheran hanno cercato di costituire nel Paese un governo che rispondesse esclusivamente ai propri interessi. Questi sforzi hanno aggravato la paralisi politica e le tensioni fra i partiti sciiti, principali protagonisti delle consultazioni volte a costituire il nuovo esecutivo.

La crisi è stata aggravata dalle proteste estive nell’importante città petrolifera di Bassora e in altre province nel sud del Paese, rivelatesi quest’anno particolarmente massicce e sfociate a più riprese nella violenza. Tali proteste costituiscono essenzialmente una rivolta anti-sistema, dunque indirizzata contro la classe politica nel suo complesso: esse hanno influenzato lo scontro politico e sono state a loro volta strumentalizzate da alcuni fra i principali partiti.

Il sommarsi di queste tensioni aumenta il rischio di una nuova destabilizzazione dell’ Iraq, in una fase in cui la ricostruzione dopo la guerra al sedicente Stato Islamico è ancora ferma; e l’Isis sembra riemergere in varie zone del nord.

Le elezioni parlamentari come punto di svolta
Durante la campagna elettorale della scorsa primavera, Washington aveva continuato a puntare sul premier uscente al-Abadi, considerato un candidato pragmatico capace di collaborare indifferentemente con americani e iraniani. Teheran dal canto suo aveva vissuto con preoccupazione la vigilia del voto, alla luce dei crescenti segnali di frammentazione provenienti dal fronte dei partiti sciiti, la cui compattezza aveva fino a quel momento rappresentato la miglior garanzia per il radicamento dell’influenza iraniana nel paese.

Il voto del 12 maggio, svoltosi poco dopo la dichiarazione ufficiale con cui il presidente Trump annunciava il ritiro statunitense dall’accordo nucleare con l’Iran, ha cambiato considerevolmente il quadro politico iracheno, parzialmente confermando i timori di Teheran, ma d’altra parte deludendo le speranze di Washington.

Le urne hanno decretato la vittoria di misura del movimento Sa’irun guidato dal leader sciita di orientamento nazionalista e populista Muqtada al-Sadr (54 seggi), seguito dalla coalizione Fatah espressione politica delle milizie sciite che avevano combattuto contro l’Isis (48 seggi). La coalizione Nasr guidata da al-Abadi è giunta al terzo posto (con 42 seggi).

In generale, sebbene queste elezioni siano state salutate da molti come un’ulteriore conferma del progressivo radicamento della democrazia in Iraq, lo svolgimento del voto ha mostrato tutti i limiti del giovane ordinamento democratico. I risultati elettorali sono stati aspramente contestati a causa di brogli e irregolarità nel conteggio delle schede, dopo una campagna contrassegnata dalla totale opacità sulle fonti di finanziamento dei partiti. Questi ultimi rimangono delle entità non democratiche, dominate da clan e famiglie, i cui meccanismi di affiliazione sono fondati su consuetudini clientelari piuttosto che sull’identità ideologica.

Gli elementi del dissidio fra Washington e Teheran
L’inaspettato esito elettorale ha dato vita a un travagliato processo di consultazioni per definire il nuovo governo. Sebbene la formazione di un esecutivo dopo le elezioni avesse richiesto mesi anche in passato, l’attuale competizione fra Stati Uniti e Iran per influenzare l’esito finale si è dimostrata insolitamente aspra. Sia Washington che Teheran hanno mandato nel Paese il proprio uomo di fiducia – rispettivamente l’inviato speciale Brett McGurk e il generale Qassem Soleimani – a esercitare pressioni nei confronti dei partiti, non solo sciiti, ma anche sunniti e curdi.

Malgrado il non brillante risultato elettorale, la Casa Bianca ha puntato su una riconferma di al-Abadi a capo di un governo di coalizione indipendente da Teheran, mentre gli iraniani hanno cercato di assemblare una coalizione alternativa che isolasse il premier uscente ormai ritenuto compromesso con gli Stati Uniti.

Tra i fattori del dissidio irano-americano in Iraq spiccano la permanenza militare statunitense nel Paese e l’intenzione di Washington di spingere Baghdad a rispettare le sanzioni nuovamente imposte all’Iran. L’ Iraq ha tradizionalmente rappresentato il “polmone” che ha dato ossigeno all’economia iraniana durante il precedente embargo americano: per questa ragione Teheran non può permettersi un governo iracheno assoggettato al volere di Washington.

Allo stesso modo, gli iraniani non vogliono che Baghdad dia carta bianca al Pentagono riguardo a numero e dislocazione delle forze statunitensi presenti nel paese. Tra i 5.000 e i 7.000 soldati americani sono tuttora schierati sul territorio iracheno e i vertici militari Usa sembrano intenzionati a prolungare la permanenza di una loro quota consistente.

Le proteste di Bassora affondano le quotazioni di al-Abadi
Le proteste scoppiate a Bassora, e propagatesi in altre province meridionali a partire da luglio, hanno ulteriormente complicato il quadro politico iracheno. Alimentate dal malcontento per l’emergenza idrica, la mancanza di elettricità, e la disoccupazione in una regione ricchissima di petrolio, esse si sono rivolte contro l’intera classe politica irachena, intonando slogan contro il governo di al-Abadi, ma anche contro l’Iran e le milizie ad esso affiliate.

A pagare il prezzo politico più alto è stato tuttavia il premier uscente, il cui schieramento aveva già registrato nelle scorse settimane un’emorragia di deputati neoeletti. La svolta si è registrata quando al-Sadr, dimostratosi l’ago della bilancia nelle consultazioni governative in corso, e fino a pochi giorni fa alleato di al-Abadi, ha deciso di abbandonare quest’ultimo in segno di protesta contro i violenti scontri tra forze di sicurezza e manifestanti a Bassora.

Infine l’ayatollah Ali al-Sistani, guida spirituale degli sciiti iracheni, potrebbe aver posto la pietra tombale sulla ricandidatura di al-Abadi dichiarando che, per la poltrona di primo ministro, è necessario ricorrere a figure che non abbiano già ricoperto quell’incarico.

Con il possibile tramonto della candidatura di al-Abadi, gli Stati Uniti potrebbero trovarsi senza carte da giocare nel processo di definizione del nuovo governo. Non è tuttavia scontato che al-Sadr trovi un accordo con il fronte filo-iraniano guidato dal Hadi al-Amiri, leader di Fatah.

Se il braccio di ferro tra Stati Uniti e Iran proseguirà, e se non emergerà rapidamente un nuovo governo in grado di rispondere a emergenze come quelle di Bassora e della ricostruzione post-Isis, la crisi irachena potrebbe inasprirsi ulteriormente.

Articolo tratto da AffarInternazionali


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