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L’Italia, gli Stati Uniti e gli F35. Ecco cosa ha detto l’ambasciatore Eisenberg

I legami transatlantici passano anche dai rapporti industriali. Lo sa bene l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia Lewis M. Eisenberg che oggi è volato a Cameri, in provincia di Novara, per una visita agli stabilimenti che assemblano gli F-35 destinati al nostro Paese e all’Olanda. All’interno dell’aeroporto dell’Aeronautica militare, infatti, si trova il sito gestito da Leonardo con il supporto tecnologico di Lockheed Martin, elemento di raccordo della partecipazione nazionale al programma Joint Strike Fighter, su cui attualmente si è concentrata la “valutazione tecnica” del dicastero della Difesa guidato da Elisabetta Trenta.

LA VISITA A CAMERI

L’ambasciatore si è detto “felice di aver visitato lo stabilimento” e “ammirato dall’altissima competenza tecnologica sviluppata dallo staff italiano”. Lo stabilimento novarese rappresenta d’altronde un centro d’eccellenza industriale, il fulcro della partecipazione italiana al programma F-35, scelto per ospitare linea nazionale di assemblaggio e verifica finale (Faco) per i velivoli di quinta generazione destinati al nostro Paese e all’Olanda. Difatti, ha ricordato Eisenberg, “le operazioni di assemblaggio servono clienti internazionali”, a partire “dai 29 F-35 destinati all’Olanda”, il cui primo è atteso “entro l’anno”. Nello stesso stabilimento si realizzano inoltre le ali dei caccia di quinta generazione, in un numero proporzionale agli ordini (le previsioni iniziali, prevedano per la Faco italiana circa 800 cassoni alari). “Gli F-35 – ha notato Eisenberg – sono aerei all’avanguardia, realizzati con i più alti standard tecnologici a Cameri, come a Fort Worth, in Texas”, base dell’americana Lockheed Martin.

LE RICADUTE DEL PROGRAMMA

“Posso solo imparare dalla grandissima professionalità del personale tecnico italiano”, ha detto l’ambasciatore, definendo il sito di Cameri “uno degli investimenti più strategici nel campo della difesa da parte dell’Italia, in linea con l’obiettivo del 2% del Pil entro il 2024”, condiviso da tutti i membri della Nato nel corso del summit in Galles del 2014. La visita era stata annunciata nei giorni scorsi dall’Ambasciata Usa, che via Twitter aveva ricordato che “la produzione dell’F35 coinvolge oltre 70 imprese in tutta Italia, con benefici sull’occupazione non solo locale”. Lo stesso Eisenberg aveva detto: “Incontrerò il personale specializzato che realizza le ali ed esegue l’assemblaggio finale dell’F35. Sono oltre 900 i posti di lavoro creati finora nell’area”, una cifra che potrebbe arrivare a “oltre seimila in tutta Italia” quando il programma sarà a pieno regime.

IL LEGAME TRANSATLANTICO

Ma oltre alle ricadute occupazioni e tecnologiche ci sono da tener conto i rapporti con l’alleato d’oltreoceano. Già all’indomani dell’incontro tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il presidente Usa Donald Trump di fine luglio, l’ambasciatore americano scriveva su La Stampa: “L’investimento italiano in programmi come il Joint Strike Fighter di quinta generazione dimostra il suo impegno per l’eccellenza delle difesa, che genera anche posti di lavoro in Italia e in America”. D’altronde, aggiungeva il diplomatico, “la collaborazione in materia di sicurezza” tra i due Paesi “è una naturale conseguenza dei legami che da tempo ci uniscono”. In quello stesso incontro di fine luglio a Washington, il premier italiano era sembrato voler rassicurare Trump tanto sull’impegno al 2% del Pil da spendere in difesa, quanto sul programma Joint Strike Fighter. Conte aveva parlato di una “valutazione curata e ponderata” e di “trasparenza con il partner americano” in merito agli F-35.

IL DIBATTITO IN ITALIA

La valutazione tecnica era stata già annunciata dal ministro della Difesa Elisabetta Trenta “sulla base dell’interesse nazionale”, nonostante la lente mediatica si sia soffermata soprattutto su “non compreremo altri velivoli”. In questa valutazione pesano sicuramente i numeri del programma, ma anche le capacità di un velivolo riconosciuto senza eguali e chiesto a gran voce dall’Aeronautica e dalla Marina italiane, che proprio sull’F-35 hanno puntato per il futuro del potere aereo italiano. A ribadirlo, recentemente, i due capi di Stato maggiore intervenuti di fronte alle commissioni Difesa di Senato e Camera, rispettivamente il generale Enzo Vecciarelli e l’ammiraglio Valter Girardelli. Se il primo ha lamentato “di non aver mai avuto la possibilità seria di illustrare analiticamente e razionalmente cosa significa avere o non avere aeroplani di quinta generazione, cosa fanno rispetto agli altri e il rapporto costo-efficacia”, il secondo ha definito il programma “imprescindibile e di fondamentale importanza, per poter esprimere in pieno le capacità strategiche e operative della portaerei nave Cavour”.

IL PARERE DEGLI ESPERTI

Anche gli esperti sono parsi sulla stessa linea. Il generale Vincenzo Camporini, vice presidente dello Iai e già capo di Stato maggiore della Difesa, ha spiegato che “oggi al mondo non esiste nulla che possa essere paragonato agli F-35 e l’Italia ha bisogno di questi aeroplani per mantenere, si badi bene, non per aumentare le sue capacità operative in un mondo che è sempre più inquieto”. Anche Carlo Festucci, segretario generale dell’Aiad, la Federazione delle aziende di settore, ha scritto su Airpress: “Credo sia sbagliato immaginare una modifica della partecipazione italiana al programma, anche alla luce del punto di avanzamento dello stesso. Molto più utile e opportuno – ha aggiunto – sarebbe chiedere al governo americano, al Joint program office (Jpo) e a Lockheed Martin una chiara dimostrazione di implementazione del ritorno industriale in Italia, anche sotto forme diverse. In buona sostanza – ha concluso Festucci – dobbiamo poter dimostrare al Parlamento e al governo italiani che la scelta dell’F-35 da parte della Forza armata, oltre a essere un’esigenza operativa, è anche un investimento sia da un punto di vista tecnologico-industriale, sia occupazionale”.

(Foto: Ambasciata USA via Twitter)

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